La psicologia contemporanea è allergica a un’intera categoria dell’esperienza umana: la storia. Molto spesso, infatti, lo studio della mente mette alla porta trasformazioni produttive, istituzionali ed etico-politiche come fossero il gruppo di ospiti che si è presentato troppo tardi alla festa. La psicologia cognitivo-comportamentale, ma anche tanta filosofia che si professa sovversiva, riduce la particolare struttura temporale dei sapiens a una controfigura. La storia sarebbe una versione celere della tettonica a placche, l’ultima bambola della matrioska evoluzionista oppure residuo imbarazzante delle lotte novecentesche.

Per questo motivo può essere utile la riscoperta di un piccolo classico degli anni Trenta di Lev Vygotskij e Aleksandr Lurija, da poco riedito in lingua italiana, La scimmia, l’uomo primitivo e il bambino (a cura di Maria Serena Veggetti, Mimesis, pp. 242, € 20,00), titolo che potrebbe ingannare perché sembra suggerire la solita progressione ricapitolativa secondo la quale il primitivo sarebbe una scimmia in grande e il bimbo un piccolo primitivo. L’intento, invece, è inaugurare gli Studi sulla storia del comportamento, come dice il sottotitolo di questo volume, che insiste sulla necessità di affrancarci dall’illusione che il passaggio dalla biologia dei primati alla psicologia infantile sia un percorso lineare.

Contro le tesi di Köhler
Per riuscire nell’impresa, gli studiosi russi offrono al lettore una mossa spiazzante. Le figure al centro del libro hanno, infatti, un tratto comune: l’ambiente della scimmia, il mondo primitivo e la vita infantile sono alle prese con quel che potremmo chiamare un incipit del tempo storico.
Il primo capitolo del saggio è la recensione critica e approfondita di un classico del pensiero animale, L’intelligenza delle scimmie antropoidi di Wofgang Köhler. Pur partendo da alcune premesse ottocentesche (gli scimpanzé sono tenuti in gabbia), Köhler approfondisce il rapporto tra i nostri parenti geneticamente più prossimi e l’uso di utensili. Ma Vygotskij e Lurija insistono sull’ambivalenza dei risultati sperimentali.

Per un verso, le scimmie mostrano capacità tecniche insospettate: riescono a usare grandi casse di legno per arrampicarsi e afferrare banane sospese in aria, possono maneggiare corde per agguantare cibo altrimenti fuori portata perché lontano dalle sbarre. Allo stesso tempo, i limiti del loro comportamento sono segnati da una spiccata aderenza al dato percettivo. Lo stereotipo vorrebbe che gli animali siano specie tattili e olfattive, mentre gli umani dovrebbero distinguersi per il raziocinio dell’oggettività visiva.

Al contrario, gli autori insistono sul fatto che il limite dello scimpanzé consiste proprio nell’essere un animale troppo visivo. Per raggiungere una banana «le scimmie di solito non tirano la corda legata al frutto, ma quella più corta». Anche l’uso di strumenti è possibile solo se «frutto e bastone sono vicini l’un l’altro, nello stesso campo visivo». La pregnanza percettiva degli stimoli impedisce alla scimmia di distanziarsi dai dintorni e fare dello strumento qualcosa di più di un escamotage temporaneo.

Se per qualche momento la capacità di trasformare la natura, tipica della prassi storica, sembra accendersi nell’uso giocoso e multifunzionale del bastone o nella capacità di incassare pezzi di legno l’uno dentro l’altro per farne una lunga canna, poi tuttavia questa capacità viene meno perché a mancare è la convergenza tra strumento, pensiero e parola. «Il pensiero dello scimpanzé è completamente indipendente dal linguaggio» perché la scimmia prima pensa e poi usa il bastone, prima comunica e poi elabora strategie.

Tra noi e gli Uzbechi
Nel comportamento umano questa struttura paratattica di affiancamento (vedo e faccio) diventa un’alleanza pratica, di genere ipotattico. Facendo vedo, vedendo faccio. L’uso del bastone suggerisce idee nuove, parlare a se stessi chiarisce quel che è opportuno fare. Per questa ragione, la modifica tecnica dell’ambiente di tipo scimmiesco non diviene storia: non riesce a trasformarsi nell’accrescimento delle forme produttive necessarie alla sopravvivenza.

Nel capitolo dedicato al pensiero primitivo, lungi dall’intenerirsi in manifestazioni empatiche o avventurarsi in dimostrazioni di come, in fondo, anche le popolazioni asiatiche ancor prive dell’industrializzazione sovietica sino capaci di calcolo, gli autori insistono sul fatto che da un punto di vista antropologico tecnica e magia svolgono una funzione simile. Lo sviluppo della scrittura alfabetica e la danza della pioggia sono entrambi tentativi di organizzazione del comportamento, sia il proprio che quello degli agenti naturali.

«Lo sviluppo storico della memoria», ad esempio, «inizia dal momento in cui l’uomo passa per la prima volta dall’uso della propria memoria, come forza naturale, al dominio di essa». Per questo il pensiero magico non è sintomo di inferiorità organica delle popolazioni «primitive» (il libro risente, qui e altrove, di espressioni linguistiche segnate dal tempo), testimonia invece un tentativo strenuo di focalizzazione dell’esperienza. Il positivista ritiene che la magia impedisca al progresso umano di accelerare il passo. Vygotskij e Lurija insistono nel vedere il pensiero magico come un’altra forma di «comportamento teso al dominio di se stesso».

È forse l’ultimo, però, il capitolo più innovativo. Considerare il bambino un piccolo adulto non è solo un errore, ma la dimostrazione empirica del fatto che nelle culture industrializzate esistono residui di magismo. A questo proposito, molti degli psicologi, pedagogisti e filosofi occidentali si comportano come remoti gruppi di Uzbechi che, negli anni Venti, rappresentano i figli come fossero la copia in miniatura dei genitori. L’infante, invece, si distingue dagli scimpanzé perché nasce in un mondo produttivo-culturale dove segno e utensile si intrecciano per costruire i mezzi di sussistenza della specie. A differenza dell’adulto umano, però, il bambino «nasce distaccato da questo mondo «e non vi si inserisce subito».

È proprio un simile distacco a fare dell’infanzia un processo eterogeneo. Prima il bambino usa parole e strumenti come «impalcature» del comportamento grazie alle quali ricordare, esprimersi, astrarre. Poi le interiorizza facendo di questo esoscheletro la struttura ossea della mente chiamata di solito «pensiero».

L’handicap e la storia
In questo quadro, le ultime pagine abbozzano, quasi a sorpresa, un’antropologia dell’handicap. Ciechi e sordi vengono indicati come latori di una vera e propria «cultura della disabilità». Non perché siano dotati di misteriose capacità sensoriali o in quanto protagonisti di esperienze indicibili. Al contrario, per Vygotsky e Lurja l’handicap è la condizione storica per eccellenza: il cieco che deambula col bastone bianco è l’espressione lampante di una «personalità culturale che termina oltre i limiti dell’organismo».