Spesso il dibattito sulla natura umana appare sotto ipnosi. La parentela genetica tra Homo sapiens e le grandi scimmie induce più di un autore a interrogarsi su questioni affascinanti ma sgrammaticate: quali sarebbero le fattezze della «scimmia che è in noi»? Fino a che età il comportamento infantile sarebbe analogo a quello degli scimpanzé? Il desiderio, comprensibile, di contrastare la presunzione di superiorità su cui si fonda lo sterminio della biodiversità terrestre finisce per generare una caricatura antidarwiniana: i piccoli di una specie non somigliano agli adulti di un’altra, tanto più che gli scimpanzé costituiscono una linea evolutiva parallela alla nostra. Non discendiamo dalle scimmie, come recita il luogo comune, veniamo da una specie estinta di primati.

L’ultimo lavoro di Peter Godfrey-Smith, Altre menti Il polpo, il mare e le remote origini della coscienza (Adelphi, pp. 303, euro  22,00) costituisce un antidoto efficace contro questo tipo di crampi mentali. Il filosofo australiano propone una storia della vita la cui originalità si fonda su una cesura spiazzante. Dopo aver descritto gli esordi dei primi organismi (circa 3,8 miliardi di anni fa), Godfrey-Smith arresta la ricostruzione proprio lì dove le altre di solito prendono avvio. Circa 600 milioni di anni or sono, la vita si biforca. Da un verme piatto di dimensioni minuscole (probabilmente non più di un millimetro) la linea dei vertebrati prende le distanze dal mondo intricato e vario degli animali privi di colonna vertebrale. È consuetudine che gli invertebrati rimangano ai margini del dibattito sullo statuto della natura umana. Questa unità tassonomica racchiude il 97% delle specie viventi, eppure è spesso considerata una sorta di rumore di fondo dell’evoluzione. Godfrey-Smith congegna, invece, una mossa sorprendente. Giunto al bivio che condurrà a mammiferi o insetti, l’autore imbocca la strada degli invertebrati per concentrarsi su un gruppo di animali dalla struttura paradossale. Polipi e seppie, in quanto membri di un phylum biologico modesto capeggiato dai molluschi, non vantano nobile lignaggio. Ma, al tempo stesso, i polipi mostrano impreviste caratteristiche anatomiche e comportamentali.

Per numero di neuroni, il loro sistema nervoso sfida il cervello dei cani (circa 500 milioni). Messe in fila, le capacità cognitive di alcune specie di cefalopodi formano un elenco dalla complessità insospettabile: i polipi si orientano in labirinti poiché dotati di un sofisticato orientamento spaziale; possono imparare a svitare tappi o a muovere una leva per ottenere cibo; trovano riparo nelle due metà di una noce di cocco che usano anche a mo’ di trampoli per camminare sul fondale marino o la richiudono per farne un nascondiglio. Grazie a studi di prima mano e a una puntigliosa ricostruzione di dati sperimentali altrimenti frammentari, Godfrey-Smith offre un quadro che sovverte lo stereotipo dell’animale mostruoso (il kraken degli abissi), interessante solo per i gourmet di pietanze con contorno di patate.

Un cervello traversato dall’esofago
I polpi si distinguono per una notevole variabilità individuale che, in condizioni di cattività, invece di deprimersi acuisce il proprio volto ribelle. Infastiditi dalla luce intensa, alcuni esemplari riescono a mandare in cortocircuito le lampadine che illuminano gli acquari con schizzi d’acqua tanto precisi da costringere alcuni laboratori a rimettere gli animali in libertà poiché spaventati dai costi eccessivi. Altri esponenti della specie mostrano di distinguere tra loro singoli esseri umani: non esitano, infatti, a bagnare malcapitati visitatori che risultino sconosciuti alle loro routine quotidiane. Queste notevoli capacità non trovano fondamento, si ribadisce nel libro, in un principio di affinità genetica: l’anatomia del cervello dei cefalopodi non mostra somiglianze o analogie strutturali con il sistema nervoso dei mammiferi.

La loro struttura neuronale bistabile è sia localizzata che diffusa. Il cervello dei polpi è bizzarro, perché attraversato dall’esofago. Inoltre i tentacoli vantano una spiccata autonomia comportamentale, dato che la maggior parte dei neuroni si trova nelle estremità del corpo. Dotato di tre cuori, il polipo ha un sangue verde-blu. È un animale intelligente ma «alieno», conclude Godfrey-Smith. La sua è una intelligenza «non sociale»: il polipo mostra un generale disinteresse per i conspecifici, tanto che nel corso della vita si riproduce una sola volta.
Altre menti lavora a una ricostruzione evolutiva che, ispirata da Charles Darwin e William James, sottolinea la continuità dei processi che hanno portato alla coscienza riflessiva esibita dai sapiens. L’insistenza sulla continuità non si risolve, però, in uno schiacciamento caricaturale oppure nella riduzione fiera quanto inconcludente di chi, a spada tratta, esclama: «non siamo altro che animali». Al contrario, il libro riesce a illustrare con chiarezza un momento decisivo per la storia della vita e il suo significato in una indagine avvertita circa la nostra natura. È uno snodo decisamente arcaico.

Circa un miliardo di anni fa la comparsa di veri e propri animali, vale a dire specie formate da più cellule, non incarna un processo semplicemente chimico-aggregativo (la somma di unità distinte) ma una direttrice fondamentale per la nascita delle forme più elaborate di intelligenza. Il pluricellulare è reso possibile, infatti, dalla trasformazione della segnalazione intercellulare in comunicazione intracorporea.

Le seppie cieche ai colori
Un organismo può divenire complesso se riesce a rendere interni processi segnaletici fino a quel momento possibili solo tra individui diversi. Il polipo sarebbe il rappresentante più clamoroso della svolta pluricellulare poiché dotato di un corpo che esibisce «pura potenza». È in grado, infatti, di assumere forme disparate: può infilarsi nelle strettoie di un barattolo, «diventare un missile idrodinamico», farsi ombrello tentacolare. Allo stesso tempo, i cefalopodi sembrano incarnare questo snodo in modo parziale. A dimostrarlo sarebbe la misconosciuta varietà cromatica delle seppie. Il loro corpo è uno schermo più cangiante del camaleonte. Probabilmente, però, non abbiamo a che fare con un sistema comunicativo perché le seppie sono cieche ai colori. La loro attività cromatica è appariscente ma non condivisa poiché inaccessibile agli organi di senso della specie.

È sullo sfondo del mondo cefalopode che le capacità conoscitive e pratiche dell’Homo sapiens, suggerisce il filosofo australiano, acquistano nitidezza. Rifacendosi agli studi (ancora oggi decisivi) dello psicologo russo Lev Vygotskij, Altre menti insiste sul fatto che gli umani godono di quel che di solito chiamiamo «autocoscienza» poiché riescono a trasformare in interna, cioè in dialoghi silenti, l’attività esterna del linguaggio verbale. Il «pensiero» nasce dalla capacità di parlare con se stessi, cioè di rendere intracorporea la parola che viaggia da bocca a orecchio. Talvolta, per comprendere qualcosa di più sulla natura umana, sarebbe utile considerarci non scimmie intelligenti quanto seppie dagli occhi buoni: animali finalmente in grado di vedere il chiacchiericcio cromatico prodotto dal proprio corpo.