Rembrandt, “Artista nel suo studio”, 1628, Boston, Museum of Fine Arts

Si costruisce attorno a presenze di grande effetto scenografico e di straordinaria pregnanza simbolica il progetto, ambizioso, di Reversos, mostra in corso al Museo del Prado fino al prossimo 3 marzo, per cura dell’artista Miguel Ángel Blanco, cui – anche in Italia e pure di recente – si devono personali suggestive come quella del 2019 alla Real Academia de España, Lapis Specularis, in tono con un immaginario da Wunderkammer cinquecentesca.
L’esposizione madrilena si avvia infatti su una replica fedele del telaio de Las meninas di Velázquez, opera che – inamovibile dal vasto ovale al piano alto dell’edificio (la sala numero 12) – si offre tuttavia da spunto evidente per l’organizzazione concettuale del percorso. A un tanto maestoso intervento di Vik Muniz, fanno seguito testimonianze d’impatto non minore e d’altrettanto colto lirismo. Ad esempio, quasi al termine, è possibile ammirare una delle valve della corazza che racchiude di solito la colossale effigie di Carlo V, fusa nel bel mezzo del XVI secolo da Leone e Pompeo Leoni, schermo per l’eroica nudità dell’Imperatore trionfante su un’angoscia furiosa; e se normalmente il visitatore può soffermarsi sui dettagli politi, sull’oreficeria cesellata di quell’involucro, Reversos ne scopre l’interno scabro, quasi che la guerra zelante del condottiero asburgico avesse riguardato il tormento di un’anima e non gli accidenti dello scontro armato, fra torce, picche e pesanti catenacci. Iconico è poi il retro severo della Dolorosa di Tiziano, pendant dell’Ecce Homo su ardesia già eseguito dal pittore per la corte spagnola, con la sua luttuosa prova di pietà, esposta a lettere dorate sul fondo bruno; mentre ossessivo appare il profilo fantasmatico, filtrato da una faccia all’altra della tela, nel presunto Autoritratto di Orazio Borgianni, un grugno dai tratti plebei e dalla braveria baldanzosa, in tutto dissonante rispetto alla tenue consistenza del suo Doppelgänger specchiato.
Nondimeno, il vero colpo di teatro si lega a tre delle assi che reggevano l’enorme superficie di Guernica nel suo peregrinare indefesso, ramingo fra 1937 e 1964, dalla Francia all’America: i lunghi cunei di legno, disposti d’après Kounellis al fondo di uno spazio regolare e claustrofobico, vi diventano regoli assoluti d’immensa tragedia e di fatica quotidiana; così, umili nella loro resistente sopravvivenza, non possono sottrarsi dal simbolizzare, a un tempo, l’eroica costruzione di un capolavoro e la storia, ugualmente mitica, della nascita di un paese, da rivoluzionare nelle strutture di governo e nell’architettura stessa della sua democrazia.
È a quest’apparizione, d’altronde, che si connette, con icastica efficacia, una delle trame più avventurose intrecciate dal disegno di Blanco (anch’egli in mostra col contributo ‘minimo’ e poetico di scatole ridottissime piene di residui e polvere a fiocchi, frutto prezioso della manutenzione regolare condotta dallo staff del museo su alcune obras maestras della raccolta); perché se l’idea alla base del progetto riecheggia episodi assonanti di una ricerca affine – pensiamo ad appuntamenti sul tipo di Metapintura, al Prado nel 2016, o del precedente Inganni ad arte, allestito per Strozzi nel 2009 da Annamaria Giusti, ma anche di Gribouillage apertosi a Villa Medici a fine pandemia – è il focalizzarsi sull’opacità del verso, sulla banale, sfiancata vita del supporto di un dipinto a imporsi fra le molte piste tracciate di sala in sala, con l’intento esplicito di rendere visibile l’invisibile.
Basti riflettere sul prestito straordinario del celebre Artista nello studio di Rembrandt, in viaggio dal Museum of Fine Arts di Boston, o alla riuscita ancor più domestica dell’opera di medesimo soggetto, eseguita da Barent Fabritius attorno al 1655-’60, citati entrambi nel saggio in catalogo firmato da Victor I. Stoichita. Grazie infatti alle parole dello storico dell’arte rumeno (non nuovo all’analisi, se si hanno in mente titoli popolari della sua bibliografia come L’invenzione del quadro o il più eccentrico – e tuttavia coerente – L’invenzione dell’ombra) e attraverso composizioni siffatte, si argomenta il tema dell’oggettualità di una tela in opposizione all’inconsistenza fantasiosa della materia dipinta; linea interpretativa «maggiore» per il percorso madrileno, mediata anche da prove di spietato, giocoso illusionismo fra cui i realistici trompe-l’oeil di Francisco Gallardo (inclusi in sostituzione del «retro di un dipinto», vertice suprematista dell’oeuvre di Cronelis Norbertus Gijsbrechts, rimasto purtroppo a Copenaghen per una certa sua fragilità conservativa).
Confrontarsi con la povertà artigianale di queste superfici, spesso monocrome, rimanda senza scampo a una dialettica tanto polarizzata che, nel quadro semantico costruito in catalogo, colloca semmai, su un medesimo lato, i prodotti del pennello e la ricchezza brillante dello specchio (ancora Las meninas…). La cecità idiota di un retro si presta piuttosto alla «scrittura» (di parole o di scarabocchi o di caricature beffarde), restando estranea all’intellettualizzazione di un processo riflettente; tuttavia, da uno schema così omogeneo, sembra esulare il portato di familiarità che, nella bottega di un pittore, carica proprio il dorso dei quadri di un surplus di cura affettuosa.
Lo suggerisce l’aneddoto che il saggio di Stoichita desume dal Museo pictórico di Antonio Palomino, la storia cioè secondo la quale il re Filippo IV, entrato nelle stanze di Velázquez, soleva avventarsi sulle opere rivolte a parete, così collocate per proteggerne le velature sottili, con l’intento di carpirne soggetti e qualità, secondo un esercizio brutale d’arroganza sovrana.
In tale prospettiva di racconto, la faccia ottusa di un dipinto, la rozza trama di ogni supporto rivelano la loro funzione di «custodia», di scrigno miserabile per le invenzioni delicate di un pensiero creativo; allo stesso tempo manifestano al lettore la lampante integrazione in un sapere professionale, fatto di trucchi ed espedienti, di consuetudini e di buone pratiche. È sotto questa luce, allora, che un’immagine all’apparenza violenta come quella messa a punto da Carl Gustav Carus all’inizio del XIX secolo per la sua «finestra dello studio» (escogitando una tela, rivolta al contrario verso l’interno, che copre alla vista buona parte di un’anta e del panorama intuibile oltre il vetro, contraddicendo per via di metafora la risaputa definizione albertiana che voleva il quadro un’apertura incorniciata sul mondo) assume un valore intimo, intriso per l’appunto di un ossequio decoroso per il sogno della pittura.
Si potrebbe quindi immaginare che, pur nel rispetto di ben congegnati rebus visivi e di dense speculazioni concettuali, il retro di una dipinto potesse venire impiegato, nella cultura artistica d’epoca moderna e contemporanea, anche come un emblema bell’e buono; e come emblema, prima che di un mestiere, di un sapere professionalizzato, per questo «esoterico», costituito da segreti condivisi da maestro in maestro e, soprattutto, da una calda passione tecnica, nutrita di pari passo con il gusto intellettuale per l’allegoria, il senso estetico per le dinamiche compositive, l’amore commerciale per un certo status riconosciuto.
Si sarebbe perfino tentati di suggerire che, forse, le scene di bohème narrate da Henri Murger in un famigerato succès de scandale di metà Ottocento, troverebbero origine proprio nella celebrazione di superfici tanto maltrattate prima ancora che nei litri d’assenzio, nei fiocchi di velluto e nei capelli lasciati liberi sopra le spalle, contro le pruderies del pubblico borghese.