Una vecchia discarica coperta da terra e sterpaglie, vicina a un’area minata. È qui, a Vucjak, ai piedi del monte Pljesevica al confine tra Bosnia e Croazia, che sono stati trasferiti 700 migranti negli ultimi tre giorni. Una zona «assolutamente inadeguata per ospitare delle persone» sostengono le Nazioni Unite secondo cui ci sarebbe «un elevato rischio di incendio ed esplosione dovuto alla possibile presenza di gas metano nel sottosuolo».

A Vucjak manca di tutto. Acqua, elettricità, servizi igienici, strutture sanitarie. La Croce rossa ha allestito un campo profughi alla bell’e meglio, ma il cibo scarseggia, lamentano i migranti a cui è fatto divieto di tornare a Bihac e Zelika Kladusa, le due città di frontiera più colpite dalla crisi dei migranti che da un anno e mezzo sta attraversando la Bosnia-Erzegovina.Nonostante l’appello dell’Onu che ha chiesto alle autorità locali di «fermare immediatamente questa ricollocazione finché non sarà disponibile un luogo più adatto» e di «permettere ai migranti già a Vucjak di tornare», il piano di ricollocazione prosegue. Un piano deciso dalle autorità locali di concerto con la Croce rossa in seguito alle proteste dei cittadini suscitate dai sempre più frequenti episodi di violenza registratisi a Bihac e Velika Kladusa.

Il piano di ricollocazione ha riguardato i profughi accampati fuori dai capannoni della Bira, un’ex fabbrica di frigoriferi riconvertita a centro di accoglienza sotto la responsabilità dell’Iom, e quelli senza documenti che alloggiavano in stanze prese in affitto a nero da privati. Da quando è esplosa la crisi dei migranti dalla Krajina bosniaca sono passati più di 25mila profughi diretti in Europa, un aumento degli arrivi pari a +150% rispetto allo scorso anno. I migranti attualmente in transito nel cantone di Una-Sana al confine con la Croazia sarebbero 9mila, di cui solo 3,500 hanno trovato riparo nelle quattro strutture temporanee allestite a Bihac e Velika Kladusa. Gli altri dormono nei parchi all’aperto, nelle case abbandonate o in stanze in affitto.

«Per un anno e mezzo non ci ha aiutato nessuno, ha dichiarato il sindaco di Bihac Suhreta Fazlic, siamo letteralmente al collasso. Più del 20% della popolazione a Bihac sono migranti». Una situazione allarmante, secondo il sindaco, che ha lanciato un appello, l’ennesimo, alle autorità dello Stato perché si facciano carico dell’emergenza. Appello destinato a cadere del vuoto, considerato che la Bosnia-Erzegovina è senza governo dalle elezioni dello scorso ottobre. A peggiorare le cose anche il rifiuto opposto dalla Republika Srpska, una delle due entità della Bosnia-Erzegovina a maggioranza serba, di ospitare migranti sul proprio territorio.
Oltre il danno, la beffa. Le proteste contro il piano di ricollocazione arrivano anche dalla Croazia e dall’Unione europea secondo cui il luogo individuato sarebbe troppo vicino al confine, solo 11 km. Una beffa dal sapore amaro per i migranti costretti a vivere in condizioni precarie, e per le comunità di Bihac e Velika Kladusa a cui è richiesto di gestire una situazione che l’Europa non ha saputo o voluto gestire in tutti questi anni.