L’identificazione dei luoghi che Omero nell’Odissea fa toccare a Ulisse sulla via di Itaca ha ossessionato sia gli antichi che i moderni. Eratostene di Cirene, uno scienziato vissuto tra III e II secolo a.C., era al riguardo piuttosto scettico: «Si troverà dove ha navigato Ulisse – diceva – quando si troverà il cuoiaio che ha cucito l’otre dei venti». Ciò non ha impedito il pullulare delle ipotesi più disparate. Di recente un ingegnere nucleare italiano ha voluto collocare le avventure dell’eroe addirittura nel mar Baltico!
Maurizio Harari, etruscologo di vaglia, tra i pochi capaci di spaziare oltre gli stretti confini della propria specializzazione, col suo Andare per i luoghi di Ulisse (il Mulino, collana «Ritrovare l’Italia. Itinerari d’autore», pp. 126, € 12,00), ci offre ora un suo personalissimo ‘baedeker’ per quelle che Vitruvio, definì le Ulixis errationes per topia (il vagare di Ulisse «di luogo in luogo, di paesaggio in paesaggio, di forma in forma», come finemente traduce il Nostro).
Harari si attiene tacitamente all’itinerario stabilito nel 1933 dall’ellenista francese Victor Bérard (quello più accettato da quanti non si rassegnano all’idea che quella omerica sia una geografia di pura invenzione), il quale situava la gran parte delle tappe di Ulisse nel Mediterraneo centrale. Ma è soprattutto nell’area tirrenica che si svolge il suo «possibile viaggio … zigzagante, guidato da comparazioni e rimandi di storie e di immagini». L’autore non ha pretese di completezza, né di sistematicità. Piuttosto indulge, cercando anche la complicità del lettore, al piacere della memoria, rivivendo in un soggettivo nóstos – quale termine più appropriato? – momenti della propria Bildung di studioso.
Il viaggio-racconto parte da Volterra, dove molte delle urne funerarie etrusche del Museo Guarnacci – Harari rievoca la sua prima visita nel lontano 1975 – sono decorate con scene dell’Odissea. Una raffigura «Circe e il brutal suo beveraggio» (così epitomò D’Annunzio), immagini usate come esortazione a trascendere la bestialità della condizione umana. Altre raffigurano la fuga dall’antro di Polifemo, metafora dell’anima che evade dalla prigione del corpo, e le Sirene, qui non mostruose Mischwesen ma simili a Muse il cui canto misterioso promette al defunto una fama che gli sopravviverà.
Non mancano rappresentazioni di altri episodi odissaici, fra cui la nékya, la discesa nel mondo dei morti. E certo colpisce lo stretto rapporto che lega il mondo etrusco a Ulisse. Secondo lo storico Teopompo di Chio addirittura l’eroe, «una volta rientrato in patria e venuto a sapere di certe cose che si raccontavano sulla condotta di Penelope», si trasferì in Etruria e vi fondò la città di Gortinea (Cortona), dove morì e fu sepolto. A questa leggenda se ne sovrappone un’altra, secondo cui proprio a Cortona si sarebbero insediati i Pelasgi (il popolo dei Migranti, secondo l’etimo) scacciati dalla Grecia e guidati dal loro re Nanas. E secondo l’erudito bizantino Tzetze, Ulisse avrebbe avuto un secondo nome molto simile: Nanos, «e chi lo chiamava in un modo chi nell’altro». La tomba cortonese di Ulisse nessuno l’ha mai trovata, ma ad Harari piace credere che, se esistette veramente qualcosa data per tale, doveva assomigliare allo sfarzoso tumulo noto come «secondo Melone del Sodo».
Da Cortona ci si sposta a Orvieto, nel Museo Faina, dove la scena, conservata sul sarcofago di Torre San Severo, di Ulisse che scanna un montone perché le ombre dell’Ade se ne abbeverino e gli parlino è il punto di partenza per ulteriori approfondimenti sulla localizzazione tirrenica della saga di Ulisse (che Harari giustamente collega ai contatti tra Etruschi e Greci dell’Eubea, gli stessi che trasmisero loro l’alfabeto), senza dimenticare quella, speculare e di poco anteriore, nell’area adriatica.
Poi Harari ci accompagna a Tarquinia, facendosi a sua volta accompagnare da nomi illustri: D.H. Lawrence, Marguerite Duras, Vincenzo Cardarelli, che su Tarquinia hanno lasciato pagine memorabili. Sulle pareti dipinte della Tomba dell’Orco II ritroviamo Ulisse che acceca il Ciclope, insieme a una folla di personaggi che popolano quel regno di Ade che all’eroe fu dato di visitare da vivo (ci sarà, azzarda Harari, un’eco della nékya – perduta – che Polignoto dipinse a Delfi?). Un terzo incontro con Polifemo ci aspetta nella tappa romana, al Museo dei Conservatori. Si tratta della scena dipinta su un vaso, verso la metà del VII secolo a.C., da uno dei primi artisti greci che ha firmato una sua opera. Volle firmarla nonostante che – o magari proprio perché – il suo nome, Aristonothos, denunciasse la sua condizione di bastardo (in greco: nóthos): era insomma un signor Nessuno, esattamente come l’astuto Ulisse aveva detto a Polifemo di chiamarsi.
L’ultimo appuntamento è nel paese di Circe. Sul promontorio laziale che dalla temibile incantatrice prende il nome nessun monumento figurato ci parla di lei, tantomeno di Ulisse; ma poco lontano, a Sperlonga, c’è un’intera, fantasmagorica, barocca Odissea di marmo. L’aveva fatta allestire l’imperatore Tiberio nella grotta che fungeva da scenografico salone da pranzo in una sua villa sul mare. Le sculture, di altissima qualità (che siano originali o copie, in fondo poco importa), sono ora ricomposte nell’attiguo museo. Rappresentano Ulisse che recupera il corpo di Achille, Ulisse che ruba il Palladio dalla rocca di Ilio insieme a Diomede, Scilla che, trasformata in ibrido mostro proprio da Circe, assale la nave di Ulisse divorando i marinai e – poteva mancare? – l’accecamento di Polifemo.
Qui si conclude il libro, che si potrebbe accostare a un poemetto alessandrino, per come riesce a coniugare eleganza ed erudizione, con una scrittura che ha nella sprezzatura la sua cifra.
Seneca bollava come inutili i libri che discettavano su dettagli minimi dei poemi omerici, cose – diceva – che «se le pubblichi non apparirai più colto ma più pedante». Non lo si può dire certo di questo.