Nell’estate del 1975 Paolo Volponi è un manager di vertice che non ha più un lavoro perché in vista delle elezioni amministrative del 15 giugno ha dichiarato a l’Unità l’intenzione di votare per il PCI, lui che viene da una famiglia di repubblicani e si è formato nell’azienda di Adriano Olivetti maturando una radicalità giacobina di pari passo a una carriera di vertice. Tanto più eclatante la sua dichiarazione perché segue in prima pagina quella dell’amico e compagno di via Pier Paolo Pasolini: i vertici della Fiat, per sopraggiunta incompatibilità ideologica, decidono di liquidare Volponi che da tre anni presiede la Fondazione Agnelli. È una impasse che raddoppia l’insuccesso di pubblico, e almeno parzialmente di critica, riscosso l’anno avanti da Corporale, una delle sue opere più alte e complesse, romanzo stroncato dallo stesso Pasolini di cui pure Volponi è al momento consulente ufficioso per stesura di Petrolio circa il tema industriale e le dinamiche interne al neocapitalismo italiano.

Il ’74, va aggiunto, non è soltanto l’anno di Corporale ma anche dell’enorme successo di un altro romanzo, La Storia di Elsa Morante, che si iscrive d’acchito nel senso comune per l’impatto emotivo e la (vera o presunta) immediatezza narrativa. Come rispondendo a una sfida dei lettori e dei critici che ne fanno un autore di estri lancinanti e poetici, dalla scrittura densa e stipata, Volponi in pochi mesi scrive un romanzo che vorrebbe finalmente «leggibile» e lo affida a Pasolini in una lettera da Urbino del 26 agosto 1975 (ora nel volume ‘Scrivo a te come guardandomi allo specchio’. Lettere a Pasolini 1954-1975, a cura di Daniele Fioretti, Polistampa 2009) in cui ne rivendica l’incandescenza politica e la dislocazione en situation: «La continuità dc è lo stato; lo stato che è fascista cioè autoritario e padronale dalla sua nascita, contro ogni fermento illuminista e libertario del povero innocente gruppo intellettuale del risorgimento».

Il romanzo, che a dispetto delle medesime intenzioni è uno dei più belli e più suoi, si intitola Il sipario ducale e ora torna con una limpida introduzione di Paolo Di Stefano (Einaudi «Letture», pp. XVIII-324, € 21,00). Scritto in terza persona, e sembrerebbe questa l’unica lectio facilior concessa al lettore, presenta due storie parallele a capitoli alterni secondo una attitudine tipica di Volponi romanziere che il suo maggiore specialista, Emanuele Zinato, chiarì negli apparati della edizione complessiva in tre volumi, Romanzi e prose (Einaudi, 2002-’03). La vicenda si svolge nel momento di innesco della strategia della tensione, tra il 12 dicembre del ’69 (giorno della strage di Piazza Fontana, a Milano) e i primi di gennaio del ’70, immediatamente dopo la morte nella questura milanese dell’anarchico Giuseppe Pinelli, probabilmente assassinato. Chi riceve le notizie ferali in sequenza sono i due protagonisti del romanzo che non potrebbero essere più antipodi. Vivono entrambi all’interno delle antiche mura di Urbino, dove nebbia e neve del dicembre paiono oramai mescolarsi, al crepuscolo, con la luce piatta e lattescente che promana dalla tv in biancoenero, un mezzo che per la prima volta si scopre ubiquitario mentre – scrive Di Stefano – si dà «una nuova comunicazione politica che attraversa il filtro televisivo».

Protagonista del romanzo è il rampollo di una schiatta nobiliare e tuttavia decaduta, egli ha il nome altisonante di Oddino Oddi Semproni, è un giovane viziato da due zie nubili e indulgenti, è ignaro di ogni cosa del mondo se non di ciò che gli arriva dal televisore e il suo patrimonio viene depredato da un viscido factotum che porta il nome parodistico di Giocondo Giocondini. Deuteragonista palesemente autobiografico (che viene fatto nascere un 6 di febbraio anche lui) è un anziano aristocratico e però militante anarchico, il prof. Gaspare Subissoni che ha perso un occhio in Spagna nella battaglia di Guadalajara ed è un fervido interprete di Cattaneo e Leopardi a dispetto dell’università di Urbino che lo ha messo al margine e respinto come un corpo estraneo: ma gli è sempre vicina Vivés, fervida e soccorrevole, la pasionaria catalana che resta tra i personaggi femminili di Volponi la più indimenticabile. (Del romanzo venne fatta all’impronta una memorabile riduzione teatrale da Vincenzo Cerami per la regia di Franco Enriquez: lo spettacolo ebbe purtroppo poche repliche ma debuttò nel marzo del ’76 al Teatro «Pergolesi» di Jesi – chi scrive ne è diretto testimone – con Valeria Moriconi nella parte di Vivés e un ineffabile, lunare, Paolo Bonacelli in quella del compagno).

Le vicende di Subissoni e Oddino si incontrano nel frangente che da un lato vede nel più giovane un potenziale redentore dell’antico Ducato, l’erede nientemeno di Federico da Montefeltro, e dall’altro il sogno rivoluzionario del vecchio professore, fautore di un Contro-Risorgimento capace di spezzare finalmente la continuità trasformistica che lega la monarchia sabauda al fascismo e al dopoguerra democristiano. Entrambi patiranno umiliazione e una ferita immedicabile: Subissoni perderà Vivés, mancata all’improvviso nei giorni della strage, a Oddino viceversa verrà meno colei che l’ha fatto per un attimo vivere sul serio: la ragazza Dirce che, spaventata, fuggirà da Urbino giusto con l’aiuto di Subissoni.

Il finale del romanzo è sospeso mentre intorno a tutti costoro torna immutabile lo scenario di pietre antichissime, madide di neve e nebbia, quel sipario ducale che nell’immaginario volponiano è possibile trascendere solo a patto di tornarvi con tutta la violenza di un rimordente disamore. Così infatti cominciava una delle sue più belle poesie giovanili, Le mura di Urbino (poi nella raccolta Le porte dell’Appennino, ’60): «La nemica figura che mi resta / l’immagine di Urbino / che io non posso fuggire /, la sua crudele festa / quieta tra le mie ire».

Entrambi sconfitti, i protagonisti del romanzo ancora una volta ribadiscono il conflitto fra utopia e disincanto, la dinamica del Don Chisciotte che lo scrittore urbinate ha eletto a modello assoluto della propria narrativa e dell’arte del romanzo tout court. Prima di Gaspare e del suo pallido antagonista c’erano già stati infatti Albino Saluggia (l’ex contadino entrato in fabbrica di Memoriale, ’62), Anteo Crocioni (l’inventore sidereo de La macchina mondiale, ‘65) e Gerolamo Aspri (il dirigente in crisi di Corporale), poi verranno Damìn (l’inquieto adolescente de Il lanciatore di giavellotto, ’81) e il poeta manager che ha il nome di un tirannicida, Bruto Saraccini, e abita Le mosche del capitale (’89), romanzo terminale in cui Paolo Volponi registra i sintomi di una bugiarda modernizzazione e gli esiti più estremi del trasformismo all’italiana.

Anni prima di essere eletto senatore del PCI, poco dopo averlo votato nel giugno del ’75, aveva scritto nella lettera all’amico Pasolini, annunciandogli Il sipario ducale, parole che oggi suonano presaghe: «Quindi occorre cambiare lo stato: la sua radice e i suoi rami, se no anche il PCI farà la fine dei predecessori e agirà comunque in continuità, questa volta con le facce del populismo e ancora del paternalismo che lo stato ha già nel suo repertorio».