Ci sono momenti in cui il mondo con il quale ci si sente in consuetudine tracolla e un nuovo ordine si profila, nel vuoto tra il non più e il non ancora, un tempo di nessuno in cui coesistono sensazioni e sentimenti contraddittori, di sbigottimento, di disillusione, di rabbia, di incertezza, e soprattutto di paura. Uno di questi momenti coincise, in Germania, con quei tremendi otto giorni che separarono la morte di Hitler, il 30 aprile del 1945, dall’8 maggio seguente, data della resa incondizionata della Wehrmacht e della fine della guerra.
Ora, uno storico tedesco, Volker Ullrich, specialista del nazismo e biografo del Führer, li racconta con grazia in un libro impegnato, disilluso e godibile: 1945. Otto giorni a maggio Dalla morte di Hitler alla fine del Terzo Reich (traduzione di Elena Sciarra, Valentina Tortelli, Marina Pugliano, Feltrinelli, pp. 335, € 22,00).

Ullrich conduce il lettore per mano in un inferno ricolmo di violenza ma anche in una primavera di speranza, raccontando quei giorni tremendi in successione, uno dopo l’altro, per quel che furono, e cioè un universo caotico di drammi e di illusioni, di distruzioni e di nuovi inizi. Il libro tocca così un’infinità di vicende individuali, soffermandosi su quelle di figure famose: da Konrad Adenauer, che diventa sindaco di Colonia a Marlene Dietrich, che ritrova la sorella a Dachau, da Kurt Schumacher, che rifonda la SPD a Willy Brandt che rifugiatosi in Svezia studia da leader, da Walter Ulbricht che insieme ai suoi compagni, il «gruppo Ulbricht», riorganizza il partito comunista a Berlino, a Werner Von Braun, l’inventore del missile V2, che si fa assumere dagli americani e si trasferisce in Texas per lavorare al progetto Apollo.

Quei giorni furono soprattutto attraversati da drammi collettivi enormi: il libro dedica spazio alle cosiddette Displaced persons, i senza patria, profughi sradicati che migrarono in massa da est verso ovest, come «un gigantesco formicaio». Proseguirono poi, certo, in quei giorni le marce della morte, gli spostamenti forzati di prigionieri dai campi di concentramento a seguito di un ordine di Himmler della metà di aprile che ingiungeva di non lasciare prigionieri nei campi all’arrivo degli alleati, provocando ondate di derelitti falcidiati dalle malattie, dall’inedia e dalla fame.

E ci furono le violenze compiute dai vincitori, meno efferate di come sostenne la propaganda nazista, tra esse soprattutto gli stupri di massa compiuti dai soldati dell’Armata Rossa, specie a Berlino. La narrazione dei fatti accaduti viene intervallata, nel testo di Ullrich, dalle percezioni dei contemporanei che vissero quella transizione dolorosa con sentimenti vivi e contrastati, lasciandone traccia in diari, lettere, ricordi. Ne risulta così un testo aperto a più letture, attraversato dall’aspetto caotico e irrisolto del mondo che vuole raccontare.

Gerarchi divisi
A dominare il tono sono le impressioni generali, la prima delle quali riguarda la rottura completa della routine quotidiana. Una berlinese, il 7 maggio, annotava: «è così strano vivere senza giornali, senza calendario, senza ora esatta, senza l’ultimo del mese», testimoniando l’esperienza di un mondo sospeso, «un tempo senza tempo, che corre via come l’acqua». Il libro racconta così l’alternanza, in quegli otto giorni, di sentimenti contraddittori, il senso di vuoto per un universo ideologico tramontato, il dolore per le perdite subite e la patria umiliata, la gioia di essersi salvati, il sollievo per la fine della guerra, la paura delle vendette dei vincitori.

Accanto allo smarrimento generale c’è una dimensione più specifica, quella politica. Già prima della morte del Führer, nel vuoto di potere creatosi nell’epilogo del regime, gli alti gerarchi nazisti avevano cominciato a dissentire tra loro: in generale, l’idea hitleriana dell’eroica disfatta, sostanziata nel Nerobefehl, il cosiddetto «Editto di Nerone» del 19 marzo, che stabiliva la distruzione delle infrastrutture tedesche al fine di impedire il loro uso da parte delle forze alleate, non fu rispettato. Hitler pensava che occorresse distruggere tutto e lasciare in eredità ai posteri solo memorabili rovine, che funzionassero da esempio per gli ariani a venire, in una storia pensata come scontro ciclico tra le razze.

Nel suo testamento, gerarchi come Göring e Himmler, colpevoli di avere tentato di proporre all’Unione Sovietica una pace separata, erano stati esclusi da ogni incarico, mentre per la successione come capo del nuovo governo insediatosi nella cittadina di Flensburg, sul Mar Baltico, veniva indicato l’ammiraglio Karl Dönitz, per il quale occorreva cedere le armi sul fronte occidentale ma continuare a combattere contro la Russia sovietica per prendere tempo e permettere a soldati e civili del fronte orientale di ritirarsi dietro le linee alleate, prima che una pesante «cortina di ferro» si abbattesse sull’Europa impedendo di scorgere il loro annientamento. L’espressione, già usata in precedenza dalla propaganda nazista, sarebbe poi, come si sa, stata ripresa da Churchill, prendendo un senso in parte diverso e divenendo l’espressione più emblematica della guerra fredda.

Alternative inammissibili
La divergenza di opinioni su come arrendersi, evidente in quei giorni, si intersecava col lacerante sconcerto diffusosi tra i tedeschi. Per molti di loro, che avevano ceduto al fascino carismatico di Hitler e del nazismo, una volta spezzato l’incantesimo, vivere altrimenti era difficilmente immaginabile. Prima di suicidarsi assieme al marito e ai sei figli Magda Goebbels aveva scritto: «Il mondo che verrà dopo il Führer e il nazionalsocialismo non è degno di essere vissuto, perciò ho portato qui anche i bambini: sono sprecati per la vita che verrà dopo di noi». Non lo pensavano solo le gerarchie naziste: nella cittadina di Demmin, nella Germania nord-orientale, nei giorni precedenti l’occupazione sovietica si suicidarono ventuno persone, poi, una volta giunta l’Armata rossa, più di quattrocento, sparandosi, avvelenandosi o gettandosi legati a delle pietre nel Peene, il fiume che la attraversa.

Lo fecero, certo, temendo la ritorsione dei soldati sovietici contro i crimini attuati durante l’Operazione Barbarossa, ma anche perché lo sfacelo in cui si precipitò (Hitler morto – combattendo, secondo il comunicato nazista, suicida in realtà – Amburgo e Monaco in mano agli alleati, Berlino accerchiata dai sovietici, l’esercito arresosi in Italia, Austria, Danimarca, Germania nord-occidentale) aveva oltrepassato la misura creando una sanguinosa ferita interiore, e facendo perdere ogni residua fede e ogni speranza.

Il via alle rivendicazioni
Poi, certamente, c’era la gran maggioranza dei tedeschi che era stata nazista ma già aveva bruciato con furia iconoclasta i simboli del regime, le bandiere con la svastica e le foto del dittatore, ostentando uno zelo servile verso i vincitori e cercando di cancellare la propria partecipazione al regime. Il senso di rifiuto, in quei giorni, si traduceva nel dichiararsi inconsapevoli dei crimini e della Shoah, nel far finta di essere stati altrove, nel rivendicare la sola ubbidienza agli ordini, espressa in frasi come questa, ripetute ossessivamente: «ma cos’abbiamo fatto per meritarci questo?» e «noi non sapevamo nulla». Un atteggiamento che si prolungò molto al di là di quegli otto giorni.