Nel novero dei registi che hanno reso grande il «Nuovo Cinema tedesco» (NCT), tra la metà degli anni Sessanta e la morte di Rainer Werner Fassbinder nel 1982, il nome di Volker Schlöndorff è d’obbligo, anche se spesso è stato considerato piuttosto un solido «metteur en scéne» che non un «autore» nel senso più pieno del termine, dato che tutti o quasi tutti i film da lui diretti derivano da sceneggiature e testi non suoi originali. Questa scelta che veniva considerata con una certa puzza sotto al naso (compreso da chi qui scrive), certo non in linea di principio negativa ma di sicuro una soluzione tradizionale e compromissoria, oggi, invece, va considerata con occhio diverso. Perché ha costituito, invece, un punto di forza a favore di chi la ha praticata, un po’ controcorrente nel suo paese. Al pari di Fassbinder, Schlöndorff da subito non si è dimenticato mai le origini popolari del cinematografo né le ragioni dell’engagement socio-politico, nutrite all’inizio anche di suggestioni brechtiane. Il che lo ha portato a muoversi dentro la logica di un cinema narrativo di vasta comunicazione, segnato nel suo caso da un’impronta fortemente letteraria, formalmente impeccabile, sempre ben recitato, anche se talvolta «sporcato» da tratti didascalici.

Comunque, il regista nato a Wiesbaden, classe 1939, ci lascia ad oggi una filmografia imponente: 35 titoli di diverso formato, dal suo primo corto nel 1960 alle sue due ultime opere del 2017, in un arco temporale di quasi sessant’anni e con una costanza che ha pochi eguali – spaziando tra una estrema varietà di generi e di tipologie di film, compresa la non fiction. Giusta e lodevole quindi la scelta della 39° edizione del Bergamo Film Meeting (24 aprile-2 maggio, purtroppo, obtorto collo, solo on line) di dedicargli una corposa retrospettiva (22 opere) ad illustrare il fior fiore della sua produzione. Inoltre, sabato 1 maggio, a partire dalle 11.00, il regista presenzierà un Q&A in diretta sulla pagina Fb e sul canale YouTube del Festival.

Figlio di un medico, persa la madre a 5 anni, il giovane Volker si trasferisce a Parigi nel 1956 per apprendere il francese e nel 1960 sotto pseudonimo e con l’aiuto di un suo compagno di scuola, un altro grande regista Bertrand Tavernier, di recente deceduto, gira Wen kümmert’s? (t.l. A chi interessa?), un corto sugli immigrati algerini a Francoforte, vietato dalla censura e restato inedito. Sempre in Francia, studia scienze politiche e frequenta l’IDHEC, la scuola di cinema di Parigi mentre inizia a lavorare come volontario e/o assistente alla regia in alcune delle opere più significative del cinema francese dell’epoca, da L’anno scorso a Marienbad (1961) di Alain Resnais a Fuoco fatuo (1963) di Louis Malle o Lo spione (1963) di Jean-Pierre Melville, suo ispiratore e «padrino» spirituale.

Forte di una grande esperienza professionale della macchina-cinema in Francia che lo distingueva dai suoi colleghi più intellettuali e autodidatti della nuova leva del NCT, torna in patria per esordire con I turbamenti del giovane Törless (1966), caratterizzato sia da una sagace direzione degli attori (tra cui il protagonista Mathieu Carrière) sia nella resa oggettivata e ricca di dettagli atmosferici del primo, straordinario romanzo di Robert Musil (1906), un Coming of age ambientato in un collegio militare austro-ungarico di inizio novecento.

Da subito emergono gli aspetti che caratterizzeranno il suo futuro di regista: lo stile realistico modellato su temi engagé, la grande capacità di direzione degli attori e la derivazione letteraria di gran parte dei film fatti (oltre a Musil, Marcel Proust, Marguerite Yourcenar, Günter Grass, Heinrich Böll, Max Frisch, Margaret Atwood o più di recente Ernst Jünger). Al Törless che resta una delle sue opere migliori oltre ad essere stato un film-faro nella fase iniziale del NCT, segue il notevole giallo «melvilliano» Vivi, ma non uccidere (1967) e poi altre trasposizioni letterarie come La spietata legge del ribelle (1969, dalla novella di Kleist attualizzata con la coeva rivolta studentesca) o uno straordinario Baal (1970, dalla pièce di Bertolt Brecht), interpretato in maniera magistrale dall’amico Rainer Werner Fassbinder.

Con L’improvvisa ricchezza della povera gente di Kombach (1971) inizia, invece, un fruttuoso connubio artistico con la moglie, Margarethe von Trotta, che proseguirà in Fuoco di paglia (1972) e soprattutto ne Il caso Katharina Blum (1975, cofirmato alla regia dalla von Trotta), il primo grande, vero successo di pubblico del NCT. Complice la grande prova attoriale di Angela Winkler e una marcata accentuazione dei lati emozionali del romanzo di Heinrich Böll da cui è tratto, nasce un potente j’accuse contro le manipolazioni della stampa scandalistica e la montante isteria antiterroristica della destra. Il successivo Colpo di grazia (1976, dal romanzo di Marguerite Yourcenar), quasi una sorta di seguito ideale del Törless, è un’opera raffinata e sottile – trai nostri film preferiti del regista renano – dove l’approfondimento psicologico di una passiva figura femminile (interpretata dalla von Trotta, qui alla loro ultima collaborazione insieme) si sposa felicemente ad una efficace descrizione storica della guerra civile tra rossi e bianchi sul Baltico nel 1919. Poi Schlöndorff gira uno delle sue opere più conosciute, Il tamburo di latta, adattamento del celebre romanzo di Günther Grass, che ottiene un ottimo successo di pubblico e prestigiosi riconoscimenti internazionali, dalla Palma d’oro a Cannes ’79 (ex aequo con Apocalypse Now di FF Coppola) ad un Oscar nel 1980 (per il miglior film straniero). L’impegno politico del regista prosegue nella costante partecipazione con suoi episodi ai tre film «collettivi» capitanati da Alexander Kluge tra cui il migliore resta Germania in autunno (1978, presente in rassegna) oppure nel più giornalistico L’inganno (1981, con Bruno Ganz), ambientato nel Libano sconvolto dalla guerra civile.

Nel periodo di tramonto del NCT negli anni Ottanta anche la stella registica di Schlöndorff sembra appannarsi, ad esempio con la impegnativa trasposizione letteraria da Marcel Proust, Un amore di Swann (1984). È il momento in cui si trasferisce negli Stati Uniti: lì realizza, invece, un ottimo adattamento da Tennessee Williams, Morte di un commesso viaggiatore (1985) con Dustin Hoffman e John Malkovich in gran forma, e Tutti colpevoli (1987), curioso cocktail di spettacolarità e impegno antirazzista. Rientrato in patria, alterna film molto diversi e di qualità altalenante: da Voyager- passioni violente (1991, tratto da Homo Faber di Max Frisch) a L’orco (1996) e soprattutto a un grandissimo e kilometrico omaggio-intervista a Billy Wilder, il maestro della commedia «Vienna-Berlino-Hollywood», Billy, ma come hai fatto? (1992, coregia Gisella Grischow), documentario straordinario, da vedere e rivedere.

Dall’inizio del terzo millennio, Schlöndorff ha ritrovato una rinnovata linfa creativa: prima è tornato sul tema e le psicologie degli «anni di piombo» in Il silenzio dopo lo sparo (2000), poi ha girato dei film quasi sempre ai grandi livelli dei suoi inizi ma che in parte non sono stati distribuiti in Italia: Strajk – Die Heldin von Danzig (t.l.: L’eroina di Danzica, 2006), in cui si racconta la nascita di Solidarnosc nella Polonia comunista; La mer à l’aube (t.l. Il mare all’alba, 2011) su un drammatico caso di rappresaglia nazista nella Francia occupata (di cui lo scrittore Ernst Jünger è stato testimone anche letterario) o ancora Return To Montauk (2017), una struggente storia d’amore ispirata dallo splendido racconto Montauk (1975) del narratore svizzero Max Frisch. E proprio questi film da noi inediti, ma non solo, costituiscono il valore aggiunto della Retrospettiva del Bergamo Film Meeting.