Io non lo so quando ho visto per la prima volta i manifesti di Cristiano Rea; ma so che quelli per me non erano i manifesti di Cristiano Rea. Erano quei poster riprodotti piccolissimi nel sedicesimo a colori di qualche libro sul punk a Roma. Li vedevo e pensavo che volevo essere capace a rifarli pure io. O a fare qualcosa che gli assomigliasse; quei bilanciamenti perfetti tra spazi bianchi e neri, quelle forme affilate degli spike o di un filo spinato, quello stile sintetico che non ha bisogno di costosi macchinari per la stampa: una fotocopiatrice in bianco e nero, una serigrafia a un colore solo, nient’altro.
Stacco. Stessi anni, contesti leggermente diversi: i manifesti di solidarietà per il Kurdistan, le copertine dei dischi della Gridalo Forte Records, le grafiche per il Chiapas. Niente disegni qui: foto posterizzate, scritte massicce, bianche con spessi contorni neri, effetto un po’ smangiucchiato. Potenti. Una mano inconfondibile. Ignota per me, ma ugualmente inconfondibile. Iniziavo i primi lavori di grafica, qualcuno mi chiedeva di impaginare i miei disegni, di aggiungerci uno slogan e una data. Io guardavo quei lavori e provavo a copiarli. E pensavo: io, con la grafica, vorrei sapere fare questo. Per me erano due autori diversi, sconosciuti, ma entrambi ugualmente importanti e fonte d’ispirazione. Poi un giorno quella che mi sembrava una scoperta incredibile.
Quel nome che compariva nei libri, Cristiano Rea, suonava incredibilmente simile alla sigla con cui erano firmati i lavori di grafica, Crea. Un’epifania. Ok, non ero sveglissimo. Lo si capisce da questo ma anche da un altro fatto: a quel punto io mi ero convinto, assolutamente sicuro, che stavamo parlando di una specie di rockstar. Uno come Winston Smith,che faceva le copertine dei Dead Kennedys e che era considerato uno dei più grossi e influenti artisti underground al mondo. Seth Tobocman, un altro pilastro delle grafiche antagoniste, celebrato ovunque con studi e pubblicazioni. O come Jamie Hewlett, che si inventò il personaggio di Tank Girl, e che da quel mondo punk era arrivato a creare tutto l’immaginario visivo di band come i Gorillaz. Gente inarrivabile, mostri sacri dell’illustrazione che io cercavo di copiare senza nemmeno provare a mascherarlo eccessivamente.
D’altronde, mica si potranno mai venire a lamentare se li copia un pischello di Roma della cui esistenza non sapranno mai nulla, no? E Cristiano Rea per me era esattamente così, uno che stava tra quei giganti, un nome astratto che chissà mo’ dove stava. Finché un giorno, qualcuno mi ha detto una cosa tipo «ma lo sa Cristiano che stai in fissa con le cose sue?». Ma Cristiano chi, Rea? Ma che ne può sapere, pensavo. «Cristiano della tipografia». Aspetta, come Cristiano della tipografia? Quel Cristiano, quello che ho pure visto un sacco di volte, quello che è amico di Cecco, quello così… normale… quello è Cristiano Rea?
Eppure. Non c’era una raccolta delle sue opere, non c’era un archivio in rete, non c’era un libro su di lui. Che cazzo di universo insensato è mai questo.
Ecco. Oggi almeno l’universo ha un pochino di senso in più. Sempre troppo poco, ma vabbé. Un passo alla volta.