«La moda evolve sotto l’impulso di un desiderio e cambia per effetto di una ripulsa. La saturazione porta la moda a buttare alle ortiche quello che fino a poco tempo prima adorava. Poiché la sua ragione profonda è il desiderio di piacere e di attirare, la sua attrattiva non può certo venire dall’uniformità, che è la madre della noia. Ecco perché, se forse non esiste una logica della moda, esiste sicuramente una sensibilità che ubbidisce a due riflessi: reazione oppure conferma». E subito dopo: «Come ha scritto Cocteau, la moda muore giovane».
Esce per la prima volta in italiano, edita da Donzelli, Christian Dior & moi, l’autobiografia di Christian Dior (pp. 217, euro 22): racconti della sua vita, della sua professione, del suo successo, della nascita del suo mito, mista ad alcune riflessioni che sono, forse, i primi tentativi di rendere intellettuali i canoni della moda: portano il lettore, con un movimento leggero e con passo sincero, all’interno di un settore tra i più aspirazionali e sconosciuti di quella creatività che si fonde con il business e che si chiama moda. Nelle intenzioni di Dior, la sua autobiografia, data alle stampe nel 1956, doveva rappresentare la riconciliazione tra la persona e il couturier Christian Dior, apparentemente tanto riservato il primo tanto obbligatoriamente personaggio il secondo: «E così, a dieci anni dalla nascita della mia casa di moda, io, per la prima volta, accetto di identificarmi con questo fratello, quest’altro me stesso che è il frutto della celebrità e che non mi somiglia».
Non sappiamo se i due Dior e i due Christian (tale era lo sdoppiamento che alla fine si possono contare almeno quattro interazioni) abbiano realmente avuto il tempo per convivere pacificamente e con reciproca soddisfazione. Neanche un anno dopo, il 24 ottobre 1957, Christian Dior muore a Montecatini Terme per un attacco cardiaco. Aveva 52 anni, era nato a Granville, in Normandia, il 21 gennaio 1905, e aveva aperto la sua casa di moda l’8 ottobre 1946, al numero 30 di Avenue Montaigne a Parigi, dove aveva presentato la sua prima collezione il 12 febbraio 1947, lo stesso giorno in cui nacque il New Look e lui divenne famoso nel mondo.
Tradotto da Maria Vidale in un italiano che appare facile e tranquillo come il francese presumibilmente parlato e scritto di Monsieur Dior, questa autobiografia oggi si trova a ricoprire una doppia funzione: può essere letta come un manuale da chiunque desideri lavorare nel campo della moda (i cosiddetti giovani stilisti dovrebbero trattarla come una Bibbia o come il manuale della giovani marmotte, a seconda della loro sensibilità) o come una testimonianza-documento da chiunque voglia capire i meccanismi eterni che regolavano la moda prima, durante e dopo gli anni di Dior, e che la regolano ancora oggi e, con ogni probabilità, lo faranno anche domani. Dalla storia prima personale di Christian Dior e poi professionale di Monsieur Dior (ancora oggi, dopo 57 anni dalla morte, nella sede della Maison, sempre al 30 di Avenue Montaigne, campeggia il suo ritratto e ci si riferisce al fondatore con l’appellativo di «Monsieur») si può capire il come e il perché la moda, pur mutando nel suo aspetto e nel suo processo industriale, non sia mai cambiata nel suo meccanismo, nei suoi tic, vizi, virtù e nella sua capacità di elaborare una visione del futuro a partire da semplici indizi catturati da una sensibilità.
Tra i ricordi personali di Christian si può leggere: «Arrivò l’anno fatale, il 1939, che cominciò con le follie che sempre precedono le catastrofi. Parigi sembrava in preda a una strana frenesia, si svolazzava da un ballo all’altro sotto i fronzoli surrealisti di Madame Schiaparelli». L’anno dopo, i nazisti invasero Parigi. Quando finalmente, arrivò la fine della seconda guerra mondiale, Dior scrisse: «Nel 1947 tutto questo era finito. Dopo anni di vagabondaggi, l’alta moda, stanca di frequentare pittori e poeti, desiderò tornare all’ovile e recuperare la sua funzione originaria: rendere belle le donne». E nasce il New Look: il busto mette in risalto il seno e si stringe in vita per allargarsi nella enorme corolla di una gonna che ha bisogno di una spropositata quantità di tessuto (per quella a mille pieghe occorrono 80 metri di faille). La figura femminile ne viene talmente rivoluzionata che gli uomini non accettano una simile provocazione e gli americani lo minacciano addirittura di morte in occasione di un suo viaggio negli Usa.
Ma il libro parla anche del rapporto con gli altri couturier, con i giornalisti («i cronisti di moda sono più bonari dei critici teatrali»), delle strategie di comunicazione. E di quelle necessarie a costruire un impero della moda. Dior l’ha fatto in dieci anni e ancora oggi è forte. Capire come ci sia riuscito è un motivo in più per leggere la sua autobiografia.