Uniti in una misteriosa Lega, i confratelli s’incamminano in un viaggio verso una destinazione che non è un luogo, ma un’altra dimensione: fra loro, in una strana combinazione di storia e finzione, Lao Tze, Platone, Pitagora, Don Chisciotte, Tristram Shandy, Mozart e Klee. È, approssimativamente, la trama del Pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse (1932), che i fan dell’autore e gli appassionati di orientalismo conoscono bene. Quel che forse neppure loro sanno (soprattutto perché la traduzione italiana li fuorvia) è che uno dei campioni della Lega, l’interprete più geniale del suo paradosso (l’irriproducibilità dell’esperienza con le parole) è Ludovico Ariosto, l’autore dell’Orlando furioso, di cui Hesse cita l’ottava famosa sulla letteratura come verità simile a menzogna, al punto che il poeta, come chi ha fatto un viaggio in terre lontane e lo riferisce agli ascoltatori, non può che sembrare «bugiardo».
È da qui, propongo, che dovrebbe muoversi chiunque affronti un discorso serio sul poema ariostesco oggi, non solo come prodotto di un autore, un tempo e una cultura, ma anche come parte di quella che di solito si chiama World Literature o Global Literature (ma andrebbe benissimo anche «letteratura mondiale»). Da qui perché i testi, tutti i testi, li leggiamo a partire dall’oggi, con quel deposito di storia e ricezioni che portano con sé (pieni della polvere dei secoli, come il Pig-Pen di Charlie Brown); ma anche perché Hesse ci fornisce la chiave decisiva per capire il fascino potenziale dell’Orlando furioso nella cultura del XX e XXI secolo, che sta nella sua capacità di interpretare quella dialettica fra verità e finzione che è al centro dell’episteme moderna. Ne scriveva, qualche tempo fa, Nicola Gardini in un saggio per il volume della British Academy su Ariosto, the Orlando Furioso and English Culture (Oxford University Press, 2019), vedendo il significato, nel poema ariostesco, come risultato di una negoziazione fra ipotesi in conflitto.
Ritornano ora su questo e altri temi gli autori del volume L’“Orlando furioso” oltre i cinquecento anni Nuove prospettive di lettura, coordinato e curato da Christian Rivoletti (il Mulino «Percorsi», pp. 400, € 28,00), dove Ariosto viene rilanciato al di là delle celebrazioni del cinquecentenario della prima edizione del poema (1516-2016), che lo avevano messo al centro, per un anno almeno, del dibattito critico, ma anche, come sempre accade con le ricorrenze, ridotto un po’ a santino e un po’ a pretesto. Rivoletti suggerisce invece di far ripartire il discorso critico su Ariosto (ma non solo) dall’interpretazione, che è lo specifico del discorso letterario quando non si riduca a mera descrizione dei dati materiali o a brillante aneddotica d’intrattenimento (i due mostri sempre in agguato della fruizione iperaccademica o veterosalottiera). Primo best-seller della storia dell’editoria, l’Orlando furioso chiede sempre uno sforzo dell’intelligenza, invitando precocemente il lettore alla cooperazione interpretativa, e merita di essere, più che commemorato, ri-memorato, ovvero ripercorso, attraversato e riletto.
Anziché presentare una noiosa serie di interventi su argomenti disparati affrontati col massimo specialismo (e un’assoluta autoreferenzialità), questa raccolta riesce a tenere insieme sintesi e affondo, quadro e dettaglio, come si addice a chi, proveniente dalla lezione di Francesco Orlando, nutrito di Auerbach e Jauss, conosce il bisogno di muoversi tra osservazione e classificazione, smontaggio dei meccanismi testuali e proposta di ipotesi di collocazione. Rivoletti lavora infatti da anni in Germania, protagonista tra i più sofisticati di quello sguardo strabico, tra paese d’origine e paese di accoglienza, che è probabilmente l’unico modo ora a nostra disposizione per evitare tanto le secche del provincialismo quanto l’ipocrisia di un globalismo senza sostanza.
Nulla di più adatto, a una simile lettura sdoppiata, del poema ariostesco, che è stato il primo, nella letteratura occidentale, a introdurre l’ironia come strumento di costante spostamento dello sguardo, in un dialogo serrato tra narratore, lettore e personaggio che contiene già elementi pirandelliani; a giocare con lo statuto di finzione del discorso letterario, su una linea che condurrà subito a Cervantes e arriverà senz’altro a Beckett; a immettere brutalmente la realtà nel testo e a farla reagire con l’orizzonte del fantasy, per cui da C.S. Lewis a J.K. Rowling con lui nel Novecento si sono dovuti fare i conti; e a giocare col montaggio narrativo, sospendendo e rilanciando i fili delle sue storie in una maniera che Walter Scott e Alessandro Manzoni cercheranno di far rivivere. Fece, inoltre, per primo, esplodere i confini di genere, con Bradamante più maschile di Ruggiero, nonché episodi di travestitismo e omoerotía, ed espresse istanze di rifondazione della legge su base giusnaturalistica, egualitaria e reciprocativa, introducendo i temi della fede e della gratitudine nelle relazioni interpersonali.
Di questo si occupano i vari capitoli, individuando i confini della finzione ariostesca (con assoluta centralità dello stralunato modello lucianeo, di cui scrivono Albert Russell Ascoli e Irene Fantappiè), le coordinate della sua ironia (la discute Corrado Confalonieri) oppure il suo impatto sulla modernità (ricostruito da Sergio Zatti), da un lato; e la sua presenza nell’opera (Florian Mehltretter), nell’epica successiva (Bernhard Huss) o nelle arti figurative (Christina Strunk). Sapientemente diviso in due sezioni, incentrate rispettivamente sul testo («interpretazioni») e sulla ricezione («letture»), il libro mette in atto quell’andirivieni, dalla letteratura alla storia e viceversa, che un grande ariostista come Eduardo Saccone individuava come meccanismo fondante della narrazione del poema. Sono urgenti, ora, proprio a partire da queste riflessioni ancora sparse, talora embrionali talaltra epigonali, nuove visioni d’insieme e sistemazioni organiche, ai fini di una discussione che renda conto più in profondità dei rapporti con la cultura delle corti, da un lato (Bembo, Machiavelli, Tiziano), e con le scorie delle appropriazioni, dall’altro lato (da Tasso e Marino fino a Leopardi, Calvino e Celati). A chi sapeva recitare meglio l’Orlando Furioso gareggiavano del resto Casanova e Voltaire.
«Non conosco l’Ariosto, ma se lo conoscessi lo odierei», rispondeva J.R.R. Tolkien a chi gli chiedeva quanto l’Orlando furioso avesse influenzato l’immaginario del Signore degli anelli. Nessuno saprà mai se mentiva o no, ma non è forse vero che i percorsi dei testi si muovono per vie traverse, canali sotterranei, ruminazioni insospettate e rigurgiti improvvisi? È così che Ariosto è giunto in America, nei saggi di Donald Carne-Ross e Robert Durling e nelle riscritture di Kenneth Koch e Jim Jarmusch. Ideale per strutturare un videogame, coi suoi giochi di realtà virtuale e narrazione a sbalzi, e per concepire un film, come volevano Blasetti e Fellini, è certamente il classico perfetto per il ventunesimo secolo.