Voci dal melting pot del Brasile
Buchmesse Una panoramica sugli autori del paese ospite a Francoforte, dove oggi si apre la più importante Fiera dell’editoria. Circa 7500 i partecipanti
Buchmesse Una panoramica sugli autori del paese ospite a Francoforte, dove oggi si apre la più importante Fiera dell’editoria. Circa 7500 i partecipanti
Anche se sono lontani i tempi in cui una casa editrice italiana come Bocca (erano gli anni ’50) dedicava esclusivamente alla letteratura brasiliana un’intera collana, da allora molto è stato tradotto e molto continua a essere divulgato. Grossomodo, oggi come allora, nonostante alcune imperdonabili lacune (per esempio il canone ottocentesco Machado de Assis, largamente ignorato) il lettore italiano più attento è in grado di usufruire in traduzione di una parte accettabile e, tutto sommato, rappresentativa di ciò che si pubblica, anche grazie all’ausilio della piccola editoria, agli appoggi istituzionali concessi alle traduzioni e a un gruppo di sparuti ma agguerriti ricercatori. Inutile, dunque, immalinconirsi ripensando al passato: gli intermediari erano d’eccezione, e andavano da Ungaretti a Murilo Mendes; così come eccezionali e di immediata reperibilità erano gli strumenti critici, fra cui Alle radici del Brasile di Sérgio Buarque de Hollanda, già nel 1954; inoltre, nei cataloghi di saggistica, accanto a Greimas e Foucault si potevano leggere Gilberto Freyre e Darcy Ribeiro, Celso Furtado e Augusto Boal (un classico come Il teatro degli oppressi per Feltrinelli nel ’77). Era agevole, dunque, non solo «leggere» il Brasile ma anche capirlo e interpretarlo.
Proviamo a fare il punto, oggi, su ciò che rappresenta la letteratura brasiliana ospite della Buchmesse di Francoforte, in un’epoca di profondi cambiamenti segnati da un lato da una nuova visibilità e da una certa euforia prodotta dalla profonda azione sociale dei governi Lula / Roussef (con un miglioramento tangibile della sfera culturale, frutto anche di sostanziosi investimenti nell’educazione e nella ricerca) e dall’altro da una nuova consapevolezza cresciuta dal basso che, tuttavia, non sempre è incanalata in maniera produttiva all’interno del tessuto sociale. Da un primo tentativo di réperage tematico risultano una serie di chiavi di lettura decisamente ricorrenti: l’identità e la memoria collettiva, con una struggente ricerca di radici esogene: da quella ebrea (è il caso del convincente Diario della caduta, di Michel Laub) a quella turco-libanese, e con frequenti incursioni nei miti nazionali (come ad esempio la costruzione di Brasilia) cui si aggiungono gli esempi popolari come il calcio – rivisitato in maniera impietosa dal Marcelo Backes di O último minuto. Poi ci sono le idiosincrasie della borghesia urbana e intellettuale (concentrata soprattutto nelle metropoli del sud) spesso narrate sul lettino dello psicoanalista, che muovono ad esempio i personaggi del Cristovão Tezza di Um erro emocional (Un errore emotivo) o del Flávio Braga di O que contei a Zveiter sobre sexo, (Ciò che ho raccontato a Zveiter sul sesso), morbose disavventure di un Don Giovanni carioca in una Rio descritta come un febbricitante labirinto in cui il solo sesso può funzionare come linguaggio interclassista; o ancora della Carola Saavedra di Toda Terça (Ogni martedì), dialogo fra una giovane sensuale e insoddisfatta e il suo psicoanalista blasé che trema di fronte a una sola minaccia: i lacaniani!
Il motivo più frequentato, tuttavia, sembra essere quello del paesaggio umano e fisico della città nelle sue note contraddizioni, dal sublime all’abbietto. Da qui, nel segno di una strenua militanza, scaturisce il corpus multiforme della cosiddetta literatura marginal, allocato nel territorio disagiato eppure creativo della favela e fortemente debitore dei linguaggi della strada, della cultura orale e dell’hip hop. Proprio uno dei suoi principali esponenti, Ferréz, rapper, scrittore e agitatore culturale, rivendica con orgoglio l’appartenenza dei testi nati nelle fucine periferiche e ghettizzate alla letteratura «minore», risalendo – per tracciarne la fisionomia – addirittura al Kafka di Deleuze e Guattari. Il ruolo di apripista toccò, ormai una quindicina di anni fa, a Paulo Lins di Città di dio, complice anche la notevole trasposizione cinematografica, ma i prodromi del genere si possono ricercare addirittura negli anni ’60, con il diario della favelada Carolina de Jesus, vero caso editoriale dell’epoca.
Quali le fonti e le aspirazioni di questa nuova generazione? Intanto, sembra essersi stemperata quella sorta di «eredità Amado» (unico autore brasiliano canonizzato da un Meridiano) in parte responsabile di un’imagerie inossidabile (il Brasile mulatto, sensuale, variamente «profumato» dalle suggestioni «tropicali» e dalla portentosa radice africana); eredità raccolta da João Ubaldo Ribeiro nell’ultima vera saga monumentale sulla storia della nazione (Viva il popolo brasiliano, ormai nel ’97). Certo, resistono i numi tutelari: Guimarães Rosa ma soprattutto, nella scrittura declinata al femminile, il monumento Clarice Lispector. E resistono una valorosa «vecchia guardia» (si pensi a Rubem Fonseca) e una discreta classe di sessantenni: su tutti l’eccellente Milton Hatoun, ma anche la sorpresa Chico Buarque il quale, con agio e dopo un paio di prove più difficoltose, è transitato dalla canzone d’autore al romanzo con due titoli di alto livello come Budapest e Latte versato; e avrebbe circa sessant’anni anche Caio Fernando Abreu, scomparso nel 1996. Extra moenia, e lontana l’ipotesi che la sua opera possa in qualche modo rappresentare il Brasile e la sua cultura, Paulo Coelho è un profeta del new age tascabile (invitato, fra i pochi eletti, all’alto scranno dell’Accademia brasiliana delle Lettere).
Ma cosa rende plausibile, oltre al dato anagrafico, l’inclusione in un ipotetico catalogo generazionale? Proviamo a scorrere altri esempi rappresentativi ai quali vanno ad affiancarsi nomi ugualmente dotati quali Luíz Ruffato, Rodrigo Lacerda, Andréa del Fuego, Adriana Lisboa, João Paulo Cuenca. Un buon esempio di ricerca di radici esogene è A chave de casa (La chiave di casa) della luso-brasiliana Tatiana Salem Levy, in cui un viaggio in Turchia alla ricerca delle origini registrato in una vitale lingua franca luso-iberico-sefardita si intreccia inevitabilmente con gli anni della dittatura militare, ovvero con clandestinità, tortura ed esilio.
Ai miti nazionali fa riferimento João Almino con Cidade livre (Città libera), quinto di una serie di romanzi su Brasília, ambientato dal 1956 al 1960, periodo in cui, nello sperduto Altipiano Centrale, si costruisce la nuova capitale federale fortemente voluta dal potere (di cui sarà simbolo) e dall’allora presidente Kubitschek. Nella rivisitazione del discorso mitico si leggono flagranti contraddizioni ancora attuali. Il progetto celebrava un Brasile nuovo e all’avanguardia nel segno architettonico dell’opposizione fra tradizione e modernità. In realtà, nonostante gli intenti dei suoi visionari disegnatori, Oscar Niemeyer e Lúcio Costa (esempio di polis sull’asse Modernismo / Marxismo), quelle iconiche cattedrali tuttora ammirate dal punto di vista estetico sono diventate il simbolo di una città ibrida, segnata da faglie congenite nelle corrispondenze fra ideale e vissuto.
Una menzione, infine, meritano due veri innovatori della narrativa brasiliana di oggi. Il primo è Bernardo Carvalho, scrittore colto e originale, pronto a spostare il punto di osservazione dal suo Brasile postmoderno (si veda l’ultimo romanzo O sol se põe em São Paulo) verso territori geograficamente distanti come in Mongolia o nel romanzo O filho da mãe (Il figlio della madre), storia di orfanità e di amore fra le rovine sullo sfondo del secondo conflitto ceceno (2003), debitore delle cronache di Anna Politkovskaya. Il secondo è Lourenço Mutarelli, autore di due piccoli capolavori eccentrici anche per fattura, di cui ha realizzato anche le illustrazioni, fumettista dai trascorsi creativi underground: A arte de produzir efeito sem causa (L’arte di provocare effetto senza causa), progressiva discesa negli inferi della schizofrenia da parte del destinatario di anonimi e inquietanti pacchetti contenenti memorabilia di William Burroughs; e O Natimorto, (Il Natomorto), incontro fatale e venato da humour amaro e da morbose devianze fra un inverosimile talent scout e una cantante al debutto, dotata di una voce così cristallina – metafora dell’invisibilità – da risultare impercettibile all’orecchio umano.
Di certo anche qui, come nella maggior parte dei romanzi citati, si possono intravedere le pennellate di un ritratto transepocale, le grandi linee della storia recente del paese sudamericano, le contraddizioni e le ambiguità della sua società elitaria, le faglie antropologiche della grande famiglia patriarcale, i conflitti razziali mai risolti, l’eredità di una pesante tradizione che non è affatto evaporata nel progetto propagandistico del Brasile mescidato e sincretico descritto nei fortunati affreschi di Jorge Amado.
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