Alcuni palazzi devono, come personaggi di fiaba, assai tribolare prima di riacquistare le primitive spoglie. È la vicenda di Peau d’âne, di Le Prince Marcassin e d’altri contes des fées recitati per diporto alla corte del re Sole: la sventurata principessa che, per sfuggire alle voglie del padre, calza una lorda pelle d’asino e vive lungamente in una fattoria, fra truogoli e letame, inzaccherata da far commuovere e il principe che una maligna incantagione costringe in orride fattezze di cinghiale sono figure di una stessa infelicità. Soltanto al termine di un lungo travaglio essi potranno dismettere quella loro tunicaccia sudicia. In una non meno dura scorza d’interventi sciagurati era avvolto appunto Palazzo Butera, l’aristocratica dimora settecentesca della famiglia Branciforte edificata in prossimità della Porta Felice a Palermo, prima che i collezionisti Massimo e Francesca Valsecchi nel 2016 l’acquistassero.
Nel Dopoguerra il palazzo era divenuto sede dell’Assessorato Regionale agli Enti locali, poi, dal 1968, aveva ospitato l’Istituto tecnico per il Turismo «Marco Polo», subendo tutte le modifiche che ciascuno può immaginare al fine di adattare la struttura ai nuovi scopi. Una patina aveva allora come coperto il palazzo. Dal 2016 a oggi, in tre anni di cantiere questa buccia è stata più volte incisa così da liberare quelli che per scherzo ho detto essere princes charmants e impeccabili fanciulle dalle carni di giglio e dalle gote di rosa ma che con più serietà potrebbero dirsi mappe e tracciati, figure di costellazioni, come il Capricorno o l’Acquario, capaci di legare in un’unica figura punti anche lontani.
E questi punti sono città come Londra, Weimar e Parigi dalla quale discese nel 1836 un giovane Viollet-le-Duc e disegnò lo scalone del palazzo. Il restauro dell’archivio, ad esempio, una superba stanza a scansie ritrovata dagli attuali proprietari tutta ritinta di un colore opaco e scialbo, ha mostrato, al riaffiorare dell’antica vernice rosso pompeiano, come Pietro Trombetta, l’architetto che nel Settecento l’aveva disegnata, parlasse un linguaggio neoclassico non meno aggiornato di quello espresso nel vicino Orto botanico da Léon Dufourny. Anche il gusto neogotico, questo rococò lanceolato, trovò una magnifica espressione nel palazzo in una sala gotica al primo piano, concepita con ogni probabilità a poca distanza da quel fiore d’erudizione capricciosa che fu Strawberry Hill.
La sala, oggi impreziosita dai lavori di Anne e Patrick Poirier, ha una compostezza raffinata che la allontana dagli eccessi di questo gusto dei quali, se fosse ancora in piedi, potrebbe vedersi un esempio eloquente nella torre di Fonthill Abbey. Ulteriori prove di un’apertura della città settecentesca alle tendenze artistiche più vive sono i sovrapporta di Gaspare Vizzini, collocati nei saloni, che un attento restauro ha permesso finalmente di esporre. Si tratta di undici tele raffiguranti scene di quotidianità settecentesca nelle quali si rivela quel medesimo interesse del secolo per la descrizione d’ambienti e costumi sociali che in letteratura produsse Le Paysan parvenu, La Vie de Marianne e la Manon Lescaut. Pittura della vita moderna, dunque, questa del Vizzini, fra i cui modelli può annoverarsi la serie della Vita della canterina di Giuseppe Maria Crespi che a Roberto Longhi sembrò un’anticipazione tanto dell’arte di Gaspare Traversi quanto delle tele del veneziano Pietro Longhi.
Ma, quanto ai rapporti col primo, ha piena ragione Claudio Gulli, che ha studiato il pittore, nel trovare in Vizzini un’ironia per le convenzioni sociali in «termini meno graffianti di quanto aveva elaborato in pittura il grande Gaspare Traversi, scomparso da una dozzina d’anni», mentre, per il secondo, le concordanze si limitano, credo, alla comune matrice, le anime stesse della loro arte essendo, in ultimo, tanto diverse l’una dall’altra. Quello di Pietro Longhi è, infatti, un universo tabaccoso e compunto, quasi ovattato nella sua gamma di verdi e di marroni attutiti, nel suo sobrio concerto di bricchi e di chicchere che ha qualche cosa della rigidità della forma sonata.
Come quello di Longhi, certo, questo di Vizzini è un mondo teatrale, osservato come in un diorama, che sarebbe piaciuto, sotto questo aspetto, assai al Diderot; ma, se di una forma musicale dovesse parlarsi per il pittore di Palazzo Butera, invece che la sonata dovrebbero evocarsi i trilli e i pizzicati di un capriccio di Paganini. I suoi personaggi ruzzano, ballano, ciangottano, suonano, trincano, cavalcano, civettano dall’alba sino al fondo della notte. Ovunque, sia nelle scene più pungenti, come quella del corteggiamento e dell’acconciatura, nelle quali si ravvisa il piacere delle classi agiate di vedersi riflesse, con una qualche leggera caricatura, in uno specchio di placido buon senso come accadeva negli articoli di «The Spectator», sia in quelle di festa campestre, animate come da una grazia tzigana immemore e trasognata, l’arte di Vizzini si distingue sempre per brio e freschezza. E nella sua pennellata, morbida e carezzevole, permane come un frullare di luce. Certe sue qualità hanno fatto pensare anche a Goya.
Ma a ripercorrere tutti i riferimenti di Vizzini ci si accorge che il pittore respirava un’aria europea: la medesima che circolava in quegli anni a Palazzo Butera e che ricomincia oggi a circolare grazie al progetto dei nuovi proprietari. «Vorrei – ha dichiarato Valsecchi – che Palazzo Butera diventasse un punto di contatto tra Palermo e l’estero, una cosa che adesso non c’è». Oggi l’edificio ha lasciato quel tanto di fiero e roccioso che gli conferivano l’incuria, la selvatichezza della vegetazione e l’adiacenza alle possenti mura cittadine. Coi suoi affacci, le sue terrazze finemente maiolicate e il suo cortile dal quale è ora possibile raggiungere la cosiddetta «passeggiata delle Cattive» e di lì Porta Felice e il mare, il palazzo ha riacquistato una natura ricettiva, quasi spugnosa. La medesima che può osservarsi se dal torrino si guarda la dolce concavità del golfo di Palermo ovvero Panormos, città tutto-porto.