Vivienne Westwood, l’unica eccentrica queen britannica, radiosa e punk, ci ha lasciati a 81 anni. La divina creatura non è stata una semplice fashion stylist, ma ha segnato gli anni più radicali di una Gran Bretagna conservatrice, attraverso un mood sovversivo, di cui gli abiti sono stati il dispositivo plateale. La sua attitudine è stata intensa e sferzante, nel suo contrapporsi al mondo puritano che l’aveva generata nel 1941 come Vivienne Swire (chiamata Vivienne in omaggio a Leigh) in quel di Tintwistle nel Derbyshire, da una famiglia di operai tessili.
Caratterialmente spregiudicata, ancora giovanissima, ripara a Londra, fucina dell’avanguardia culturale, dove si nutre dei rizomi più disturbanti, mentre segue dei corsi di orificeria, lancia i suoi primi gioielli e sposa Derek Westwood. Ma è l’incrocio col punk e con il musicista Malcolm McLaren nel 1965 (compagno di vita e di lavoro) che la dirottano in quel territorio anarchico della scossa generazionale, esplosa in Uk e poi planetarizzata. Insieme a McLaren azzardano un nuovo mood, vendendo vestiti vintage e dischi alle bancarelle di Portobello Road. Le loro t-shirt distrutte, impigliate in catene, spille, borchie diventano l’emblema di un sentire controcorrente che viene immolato, soprattutto, dai Sex Pistols di Sid Vicious.

SIMBOLO di una generazione al limite e di nuovi orizzonti espressivi, la band viene affiancata da McLaren (che ne diviene il manager) e da Westwood che ne cura l’immagine. Dissacranti, eccentrici, esagerati, i Sex Pistols abbracciano lo stile di Westwood che, intanto, espande il suo modo di intendere il mondo attraverso «Let it Rock», uno dei primi negozi di dischi e abiti, in King’s Road. Nel 1972 lancia la sua prima collezione e un nuovo negozio «Too Fast to Live, too Fast to Die» ma è col terzo negozio «Sex» che trova i primi clienti famosi, come Ringo Starr, per il quale disegna i costumi del film That’ll Be the Day e indigna il bacchettonismo britannico con le mitiche t-shirt con il volto della regina, in liaison con la controversa track dei Sex Pistols God Save The Queen.
Vivienne appartiene a una generazione eccessiva, contraddittoria e controtendenza, in cui la musica dei Clash e il cinema di Derek Jarman servono da vettore unificanti in un sentire antagonistico a quello imperante nella Inghilterra puritana della Thatcher, la lady di ferro. A cotanto conservatorismo, l’unica onda contestatrice a diramarsi è lo stravolgente shock culturale del punk. Westwood rimane la catalizzatrice di quell’humus destabilizzante anche dopo, in quegli anni Novanta guidati da Tony Blair, in cui il paese forte della ripresa economica si lascia scivolare in una sorta di «alleggerimento» dovuto non solo alla politica laburista del primo ministro quanto all’imposizione del target «Cool Britannia». Qui l’«assalto» estetico catapultato dai Young British Artists (Damien Hirst per tutti), risponde al soft sound della Brit-pop dei vari Blur, Oasis, Suede, Pulp eccetera. Nondimeno è la New British Fashion a evidenziare una ricerca sperimentale che trova nei suoi Alexander MQueen, John Galliano, Hussein Chalayan, Stella McCarthy, Katherine Hamnet, Paul Smith (usciti tutti dalla prestigiosa Central Saint Martin’s College of Art and Design londinese) a ruotare intorno alla già decollata icona Vivienne. Anche se tutta questa simulata leggerezza, in realtà, rivela la contraddizione politica del New Labour che tende a spostarsi sempre più a destra, fino al 2007, anno in cui Blair lascia definitivamente Downing Street.

WESTWOOD È SEMPRE al chiodo, audace e paladina di battaglie civili e culturali. Neppure l’adulante riconoscimento che nel 1992 la monarca Elisabetta le conferisce con l’Order of the British Empire, la fa cedere o recedere dal suo furor provocatorio, sfidando in quell’occasione il formalismo puritano di Buckingham Palace. L’eccentricità di questa creatura imperituramente contro, non deve far dimenticare le sue battaglie civili e forza creativa che, pur nell’opulento parterre della fama internazionale ormai acquisita, mantennero sempre quel filo di pungente invettiva.

DISEGNA NEGLI ANNI a venire collezioni memorabili come Witches, nel 1983 intesse la collaborazione con l’artista Keith Haring, invera pezzi iconici come le audaci décolletées con il plateau del 1993, immortalate con lo scivolone in passerella di Naomi Campbell, «detourna» il corsetto femminile che da indumento di costrizione diviene elemento liberatorio del corpo della donna. Usa parrucche stravaganti e iper barocche, destruttura le linee sartoriali e le porta all’eccesso, riscrive il punto vita e crea per il suo brand «Anglomania», l’«Orb» (un globo con un anello satellitare attorno ad esso simile a quello di Saturno).
Vivienne Westwood usa l’abito esagerato e adorabile come congegno di protesta, come fece contro le amministrazioni Bush e Blair, creando le famose t-shirt con il lettering I am not a terrorist. Propaganda, Active Resistance, Active Resistance to Propaganda. Nel 2015 inaugurò la collezione Unisex, progenie del genderless. Nel 2013 aveva disegnato il logo di Green Peace e, da sempre, ha supportato Amnesty International e War Child. Fino all’ultima delle sue battaglie per la liberazione di Julian Assange, che ha sostenuto in molte manifestazioni per impedire l’estradizione negli Stati Uniti.
Di tutta questa magnifica anomalia del suo essere, ci resterà la Vivienne Foundation, il cui obiettivo è quello di continuare il suo attivismo perseguendo ciò su cui non ha avuto mai dubbi: «Il capitalismo è un crimine. È la causa principale della guerra, del cambiamento climatico e della corruzione».