«Li Francise so’ arrivate/’nce hanno bbuono carusate/evvualà evvualà/cavece ’nculo alla libertà». Nonostante la feroce reazione del Canto dei Sanfedisti, la rivoluzione francese, il filosofo Diderot e i suoi compaesani cambieranno la storia della musica mondiale, e di quella napoletana in particolare. Con la nascita del diritto d’autore, trasferito nel meridione dai napoleonidi, i canti popolari partenopei perderanno l’anonimato e il carattere corale della composizione. Numerose famiglie transalpine al seguito dei militari si faranno incantare dal genius loci e dalle Muse. E alcuni editori, come Giraud e Cottrau, daranno un impulso importante alla codificazione e raccolta delle composizioni di tradizione orale.

I MATERIALI diversi hanno anche spazio e forma più aggraziata nel salotto borghese dove si ritrovano compositori colti, riuniti nelle «periodiche», gli incontri a cadenza fissa, dove i motivi paesani originali e le voci della strada si mischiano regolarmente. Sulla base di una grande produzione di melodie popolari tradizionali, spesso presenti anche nei capolavori di Paisiello, Jommelli, Cimarosa e altri protagonisti dell’Opera Buffa, si avvierà così quell’attività di trascrizione e rielaborazione delle canzoni che corrono con la voce del pescatore e del calzolaio, del salumiere e della venditrice ambulante, portate in giro e pubblicizzate dai cantanti girovaghi e al suo massimo splendore dalle case editrici nell’Ottocento per tutta l’Europa. Sono i tempi della nascita di un’industria discografica che produceva copielle, piccoli fogli volanti con riproduzioni artigianali dei testi e delle note delle canzoni, spartiti con gli andamenti musicali e lacche da grammofono cantate e suonate nelle strade cittadine dai posteggiatori ambulanti, dai carillon dei pianini meccanici e dalle riunioni casalinghe che contribuiscono a diffondere i brani. Un francese di nascita poi trasferitosi in città e diventato suddito del Regno delle Due Sicilie, Guglielmo Cottrau, raccolse numerose melodie popolari tra la città e la campagna, spesso trascrivendole sul pentagramma e firmandole come proprie creazioni, da Fenesta Vascia a Lu Faenzaro a Raziella. Un’operazione che compirà anche il sommo poeta, Salvatore Di Giacomo, con ‘E spingole frangese, adattamento di un canto popolare, e con altri brani. La sua prima canzone, Nannì, nel 1882 scritta per scommessa seguita da Carulì, Oilì Oilà, Era de maggio, tutte musicate da Mario Costa, tutte con l’anticipo di quel lirismo rotondo e lucidato derivante dalla sua profonda conoscenza del dialetto e della cultura di una vecchia capitale perduta, a lungo sospesa tra malinconica spiritualità e allegria corale. Poi Marechiare, a celebrare luci e ombre di un solitario scorcio di mare, una trattoria, una piccola finestra e una passione d’amore, la vicenda della ragazza che abitava sopra la famosa finestrella. Luogo peraltro già magnificato nell’opera buffa, Osteria di Marechiaro, di Francesco Cerlone. Marechiare, pubblicata nel 1885 per le edizioni Ricordi, fu musicata dall’abruzzese Francesco Paolo Tosti, uno dei più rinomati autori dell’epoca. «Quanno spónta la luna a Marechiare,/ pure li pisce nce fanno a ll’ammore…/ Se revòtano ll’onne de lu mare/ pe’ la priézza cágnano culore…».

NEL 1898 il mastro Eduardo Di Capua accompagna il padre, violinista e posteggiatore, in alcune esibizioni in Ucraina e proprio a Odessa, davanti a una pallida alba, gli venne l’invenzione giusta per i versi che gli ha affidato l’amico Giovanni Capurro. Nacque così ‘O sole mio, battuta nel concorso promosso dalla Bideri e poi universalmente riconosciuta come inno celebrativo della filosofia esistenziale napoletana (purtroppo sia Di Capua sia Capurro moriranno in povertà). Toccherà a un giovane sublime cantante e straordinario interprete, Enrico Caruso, diciottesimo figlio di una coppia irpina, farne una specie di simbolo assoluto. Voce da tenore o baritono? Squilli naturali e potenti da far tremare il grammofono. L’industria delle macchine parlanti favorisce la sua carriera internazionale, da New York a Buenos Aires passando per Londra, diventando la passione dei melomani di tutto il pianeta e il campione degli emigranti, col suo repertorio che include Core ‘ngrato e Guardann ‘a luna, Santa Lucia e Addio a Napoli.

ALL’INIZIO del 900 viene fondata la Società Fonografica Napoletana che poi cambierà nome in Phonotype, una delle prime case discografiche italiane, di proprietà della famiglia Esposito, che metterà sotto contratto tutti i grandi cantanti da Ferdinando De Lucia a Ria Rosa, da Gennaro Pasquariello a Elvira Donnarumma, facendogli incidere centinaia di dischi. Da ricordare Ernesto De Curtis, autore di Voce ‘e notte e Sora mia e naturalmente Torna a Surriento, brano d’occasione scritto col fratello Giambattista nel 1902 per «ricordare» al presidente Zanardelli, di passaggio per la Basilicata, la necessità di un ufficio postale. Nel periodo della guerra arriva ‘O surdato ‘nnammurato di Cannio e Califano, 1915, una marcetta resa intramontabile dai versi «Oje vita, oje vita mia…/Oje core ’e chistu core…/Si’ stata ’o primmo ammore…/E ’o primmo e ll’ùrdemo sarraje pe’ me!».
Altri grandi poeti si cimentano con enorme successo con la canzone, Ferdinando Russo, Ernesto Murolo, Libero Bovio, E.A. Mario, pseudonimo di Giovanni Gaeta, autore di centinaia di canzoni (comprese molte in italiano tra cui La leggenda del Piave) e delle fortunate Cara mammà, Comme se canta a Napule, Funtana all’ombra e Santa Lucia lontana,1919, con l’indimenticabile terzina iniziale «Partono ‘e bastimente/ pe’ terre assai luntane../ Cantano a buordo: so’ napulitane», esempio del vasto repertorio destinato alle grandi masse popolari andate oltreoceano tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 con la durezza quotidiana di Lacreme napulitane di Bovio e Bongiovanni, e la nostalgia spezzacuore di ‘A cartulina ‘e Napule, cavallo di battaglia di Gilda Mignonette, la regina degli emigranti, che porterà nei teatri anche Lacreme ‘e cundannate, dedicata alla tragica vicenda degli anarchici innocenti Sacco e Vanzetti, come la più luttuosa ‘A seggia elettrica.

E POI la dolente umanità di Raffaele Viviani, eccellente drammaturgo, rivoluzionario nelle scelte e nelle rappresentazioni, figlio del popolo con numerosi momenti musicali nelle sue piece. Brani in dialetto sporco e stradaiolo, di autonoma validità, come i suoi personaggi presi dalla vita vera, quel sottoproletariato combattente nel degrado e nell’emarginazione rappresentato da ‘O pazzariello, ‘O scupatore, ‘O maruzzaro, la popolarissima Bammenell ‘e copp e quartieri. E un altro brano capolavoro, sfrontato e spensierato, da ballare nei vicoli A rumba de scugnizzi (1931), motivo di strepitosa vitalità, con espressioni dialettali storiche e le grida dei venditori ambulanti.

3. continua
(le prime due puntate sono uscite il 30 luglio e il 5 agosto)