Come fanno i medici a dare le notizie cattive? Dal loro dilemma si può trarre ispirazione per parlare di catastrofe globali? In un articolo del 1984 l’oncologo Robert Buckman è stato uno dei primi a sollevare la questione dal punto di vista del personale sanitario. La sua definizione di cattive notizie si adatta molto bene al collasso: «qualsiasi informazione che potrebbe alterare drasticamente le prospettive future del paziente».

QUESTO È UNO DEI TANTI temi trattati in Un’altra fine del mondo è possibile, vivere il collasso (e non solo sopravvivere) di Pablo Servigne, Gauthier Chapelle e Raphael Stevens (pp. 245, euro 23, traduzione di Sandra Bertolini) pubblicato nella collana Visioni di Treccani (un insieme di titoli che insistono in modo originale «intorno» al tema dell’Antropocene). In realtà, gli autori utilizzano l’esempio dei medici per parlare di catastrofi riferite soprattutto alla questione climatica (il libro è stato scritto prima dello scoppio della pandemia). Ma la sua straordinarietà, oltre a essere il primo esaustivo volume che riassume e mette insieme le tante teorie sul collasso del nostro mondo, è la seguente: se si sostituisce «collasso climatico» a «pandemia» il volume regge ugualmente, perché concentrato su tutte le teorie che costituiscono una disciplina dal fascino micidiale: la collassologia. Come si gestisce un collasso? Come lo si comunica? Come ci si difende?

Tra le tante riflessioni portate dal dilagare dell’epidemia di coronavirus, infatti, quelle sul futuro e sul ritorno o meno alla «normalità», si sono ritagliate uno spazio ad hoc. «Normalità» che volumi come questo dimostrano quanto sia un termine improprio per descrivere il «prima», considerando che chi oggi nega l’emergenza sanitaria (o l’ha negata fino a quando ha potuto) prima rifiutava pure l’emergenza climatica, e oggi sappiamo invece quanto le due cose siano collegate.

LA PANDEMIA INFATTI non fa altro che indagare il nostro rapporto con la natura, con gli animali responsabili del cosiddetto spillover e più in generale tutto quel filone di critica e pensiero che si è spesso riassunto all’interno dell’ambito denominato «Antropocene». In sostanza, il Covid confermerebbe, se mai ce ne fosse bisogno, che l’era del dominio dell’umano su natura e ambiente ha sviluppato molti e validi motivi per portare al collasso totale dell’umanità. Alcuni sondaggi nei paesi dell’Europa del nord, ad esempio, dimostrano come la maggioranza degli adolescenti sia convinta che assisterà alla fine del mondo nel corso della propria vita. E anche precedentemente al coronavirus le avvisaglie non erano certo le migliori ed erano state sottolineate dai movimenti come Fridays for future o Extinction Rebellion, nel tentativo di coinvolgere più persone possibile nel tentativo di salvare il salvabile. Questo senso di incalzante catastrofe, dunque, esisteva già prima del Covid e aveva comportato necessarie riflessioni su come essere gestita anche da chi è deputato a comunicare l’esistenza dell’imminente deflagrazione.

ABBIAMO IMPARATO a conoscere volti, abitudini lessicali (e le librerie di casa) di tanti eminenti virologi in questi tempi, nonché di tecnici, come quelli della protezione civile, sparati a reti unificati per darci messaggi che tutti speravamo positivi. Il libro esplora anche il «loro» senso del collasso, attraverso l’esperienza dei medici o dei climatologi o scienziati che conoscono numeri e dinamiche ma a volte non sanno «come raccontare» il rischio del collasso.

O ANCORA come il tentativo di fuga dalla catastrofe non faccia che riproporre dinamiche sociali della fantomatica «normalità», a specificare che anche di fronte al collasso, se non si cambia la «normalità», prevarranno sempre le differenze di classe radicate nelle nostre società. Si è discusso molto, in tempo di quarantena, del divario tra chi ha seconde case o ampi spazi, rispetto a chi vive in bugigattoli; nelle dinamiche del collasso accade la stessa cosa: fenomeni che illustrano quello che il filosofo e sociologo Bruno Latour descrive come «un atto di secessione da parte di una categoria della popolazione molto agiata che, consapevole dei rischi e della posta in gioco, cerca di salvare la propria pelle senza preoccuparsi del destino del resto del mondo».

Gli autori di Un’altra fine del mondo è possibile a questo proposito usano la metafora dell’aereo entrato in un’area di forte turbolenza che purtroppo ricorda molto da vicino l’attuale situazione di tante persone di fronte all’epidemia: «si accendono le spie luminose, le coppe di champagne si rovesciano, ritorna l’angoscia esistenziale. Alcuni alzano le tendine dei finestrini, vedono una notte buia squarciata dai fulmini e le richiudono immediatamente.
Nella parte anteriore del velivolo si vedono alcuni viaggiatori in prima classe che indossano i loro paracadute d’oro. Ma cosa stanno facendo? Salteranno nella tempesta? Le classi nella parte posteriore si rivolgono all’equipaggio e chiedono i paracadute, sapendo perfettamente che la loro domanda non verrà soddisfatta. Come unica risposta, viene offerto loro un piccolo spuntino, un film, un articolo duty free».