Charles Trenet raccontava di aver scritto il testo di La Mer in dieci minuti, mentre era in viaggio sul treno Parigi-Narbonne. Un percorso che, nel 1943, richiedeva ore di scossoni, brandelli di conversazioni, afrori, pause di dormiveglia… Più di 700 chilometri di paesaggio uniformato dall’andatura costante della strada ferrata. Ma bastano dieci minuti per avvicinarsi all’immortalità: il disco di La Mer sarebbestato il più venduto in Francia, insieme a La Vie en rose di Edith Piaf.

«La mer / Au ciel d’été / Confond ses blancs moutons / Avec les anges si purs», le parole cantate da Trenet, come una carica elettrostatica alimentata dalla corrente degli anni trascorsi, attraversano l’eco ventrale della grande Sala delle Ciminiere del MAMbo. Accordi di chitarra, pianoforte e violino che incoraggiano l’accento voluttuoso dello chansonnier e poi si ripetono ossessivamente, distendendosi a formare il paesaggio sonoro di AGAINandAGAINandAGAINand. La mostra, a cura di Lorenzo Balbi e in collaborazione con Sabrina Samorì, chiama a raccolta fino al 3 maggio, nel Museo d’Arte Moderna di Bologna, intorno al macroargomento del loop, dell’avvitamento del tempo su se stesso, sette artisti provenienti da esperienze radicalmente diverse: Ed Atkins, Luca Francesconi, Apostolos Georgiou, Ragnar Kjartansson, Susan Philipsz, Cally Spooner, Apichatpong Weerasethakul. Sette modalità di presagire la ciclicità degli eventi e di tradurla nell’immediatezza delle cose attraverso forme di varia caratura, tra pittura, scultura, video e performance.

Cromaticamente seducenti e animate da un rapporto nervoso tra la vaghezza delle sagome in primo piano e la nettezza delle linee degli sfondi, le ampie pitture del greco Georgiou descrivono scene allucinate di quotidiana banalità, alternando una vasta sequenza di situazioni private, sociali e lavorative. Palma d’oro al Festival di Cannes 2010 con il lungometraggio Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, qui Weerasethakul presenta un capitolo del suo elaborato progetto filmico che, prendendo come spunto l’enigmatica figura di un parente deceduto e reincarnatosi più volte, affronta la cultura della Thailandia, raccontata attraverso riprese ricorsive come le rime di un componimento poetico.

L’intreccio tra ritualità antropica e periodicità delle stagioni è il movente della ricerca di Francesconi, le cui opere spesso ibridano elementi naturali e organici. Sono sculture che si fanno con poco, marmo e bronzo appena lavorati, ortaggi colorati e in vari stadi di deperimento, manciate di riso bianco, pesci essiccati. E poi bastano la sensibilità dell’occhio, che isola le forme e poi le ricompone, e la disponibilità a lasciarsi condurre dall’ironia delle associazioni intuitive. Ostinata è la struttura del Bolero di Ravel, la cui intensità crescente sottolinea le esplosioni oniriche di Atkins che, proiettate su un grappolo di tre grandi schermi calati dal soffitto, trasformano la routine delle procedure di controllo negli aeroporti in un videogioco nonsense.
Insomma, quale luogo più adatto di un museo, architettura di resistenza al decadimento della materia, per immergersi in quella impressione latente ai bordi della mente che, da una parte, fa percepire il tempo come un vettore orientato verso qualcosa di là da accadere, ma, dall’altra, suggerisce la possibilità che tutto sia nello stesso istante e nello stesso luogo. Che i mille modi per ottimizzare la giornata e tutti i trucchi per sconfiggere la procrastinazione e i cento altri titoli semanticamente simili, le cui copertine si richiamano senza soluzione di continuità tra i suggerimenti correlati di Amazon, siano solo la manifestazione più evidente del fatale errore di un sistema arbitrario. Nelle società industriali si discuteva di «alienazione». Poi sono arrivate la flessibilità, la reperibilità, la decentralizzazione e l’iperconnettività, i supermercati H24 e gli imprenditori di se stessi. O meglio, del proprio tempo.

Ma oggi come si misura, anzi, come si ripartisce, come si identifica il tempo?

Si potrebbe assistere per un tempo indefinito allo svolgimento di Bonjour, la grande installazione performativa di Kjartansson che, in questi giorni di sospensione, è stata trasmessa in streaming sul canale Youtube del Museo. Perdendo il conto dei piccoli particolari che la compongono, dei micromovimenti che animano questa scena che si stringe e si espande come un ghirlanda di Gödel. «La mer / Les a bercés / Le long des golfes clairs / Et d’une chanson d’amour», un uomo e una donna si incontrano al centro di una piazzetta incorniciata da bassi edifici in mattoncini di un paesino della Francia meridionale della seconda metà degli anni ’40, il cui scorcio è ricostruito con dovizia di dettagli. Tra i due si instaura un contatto visivo magnetico, poi un rapido saluto, «Bonjour» – «Bonjour», mentre la gonna si muove un po’, quando lei si sporge sul bordo della fontana per cambiare l’acqua ai fiori, mentre il fumo della sigaretta si disperde in pochi attimi e lui ripone i fiammiferi nella tasca della vestaglia. Le loro esistenze senza pericoli, l’assenza, sui loro volti, del marchio dell’errore, dell’insuccesso. L’uomo e la donna ritorneranno nel simulacro delle loro rispettive abitazioni, vivificate dalle scenografiche luci della Sala del MAMbo. E Trenet canterà, ancora una volta, il suo ritornello e noi proseguiremo con la sua voce nella testa anche quando saremo usciti dal museo, sotto i portici silenziosi di Bologna.