«La mia Milano era molto piccola», ammette Alberto Saibene, a pagina 76 di questo suo libro denso, documentato e affettuoso (Milano fine Novecento Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più, Edizioni Casagrande, pp. 153, e 22,00). Eppure in questa città-fazzoletto quanti incroci, quante frequentazioni, che intensità di vita sociale…

L’indice dei nomi ne dà plastica evidenza: accuratamente compilato prende nove pagine e raccoglie ben 692 voci. La piccola Milano di Saibene in senso geografico è quella interna alla cerchia dei Navigli, in senso sociologico è invece quella di una borghesia fattiva, curiosa, intellettualmente aggiornata, anche se in tanti casi segnata dai sintomi di uno smarrimento identitario, come insegna la storia di Giovanni Pirelli.

L’autore è di casa in questa Milano, si è educato visivamente sui meravigliosi libri delle Emme Edizioni di Rosellina Archinto, ha frequentato il Parini e ha conosciuto di persona o per testimonianze ravvicinate gran parte dei personaggi che popolano le pagine del libro. «Crescere in quella Milano è stato bellissimo», riconosce Saibene. Del resto, per uno della sua generazione, questa era la città dove nel 1972 Giuliano Briganti veniva chiamato a insegnare l’arte ai bambini, dove Munari disegnava libri capaci di cambiare lo sguardo dei più piccoli e dove crescendo ci si formava sui grandi spettacoli del Piccolo.

L’anagrafe permette però a Saibene di poter guardare a questa singolare epopea urbana anche da fuori e quindi di riscriverla con tono leggero, quasi si trattasse di una fiaba, destinata a dissolversi in quel 1992, drastico punto di non ritorno con Mani Pulite.

È una fiaba senza eroi che egemonizzino la scena, perché la sua trama prevede una molteplicità di protagonisti, concentrati più a fare che ad apparire, e soprattutto dotati di un’innata propensione a fare gioco di squadra. È in fondo una favola la parabola della Rinascente. «Se si dovesse riassumere un secolo in un solo episodio, la scelta dovrebbe andare al Natale 1959», scrive Saibene. Gli impiegati avevano dovuto chiudere le porte del grande magazzino per filtrare la folla accorsa in massa per i regali. Era la Milano del boom, che a pochi passi dal Duomo celebrava il rito di un consumismo nascente e lontano anni luce dalla versione volgarizzata della Milano da bere e del berlusconismo. Per mettere a punto il meccanismo di questa scatola magica i Borletti e i Brustio, padroni della Rinascente, avevano chiamato un fior fiore di grafici, comunicatori, architetti. Ferdinando Reggiori ricorre al marmo rosa di Candoglia per l’edificio, Massimo Campigli si occupa delle decorazioni interne, Marcello Dudovich disegna la campagna pubblicitaria. Eleganza, valori, cultura non erano semplici proclami ma asset sui quali si puntava con naturalezza e convinzione. Forse non sufficienti a reggere la competizione di un’economia sempre più aggressiva, come purtroppo dimostra l’epilogo triste della fiaba: la Rinascente nel 1969 viene ceduta al gruppo Fiat e incatenata alle logiche di un capitalismo monarchico. E pensare che poco prima Tomás Maldonado era stato chiamato a progettare tutta la segnaletica interna del grande magazzino. Non era già più tempo per quei modi raffinati e civili…

Anche Giancarlo Iliprandi, protagonista di uno dei capitoli più belli e affettuosi del libro, aveva lavorato all’ufficio stile della Rinascente, non a caso smembrato dagli Agnelli dopo il passaggio di proprietà. Iliprandi è il prototipo dell’anti personaggio alla milanese. È lui a dare forma a una professione che sarebbe diventata sempre più centrale nella comunicazione, quella dell’art director. Tuttavia conclude la sua parabola creativa tornando alle radici e nell’ombra: ridisegna i caratteri per macchina da scrivere per conto della Fonderia Nebiolo. Intanto l’elettronica sta arrivando a spazzar via tutte queste finezze. Parabole simili alla sua sono altre che Saibene riabilita, senza enfasi ma con grande convinzione. Sono quelle di Franco Crepax, di Giovanni Gandini, di Marcello Marchesi, tutti portatori di quote sane di genialità, ma privi della cattiveria necessaria per non farsene espropriare.

Il libro di Saibene dimostra di funzionare perché propone una documentazione puntigliosa di questa stagione di Milano, ma ne assorbe anche lo stile, misurato, trasparente, concreto. Inevitabilmente quindi finisce con l’incocciare con gli anni ottanta, quelli di una nuova ostentazione della ricchezza, del prevalere dell’apparire sul fare, di una spregiudicatezza politica. Ermanno Olmi aveva raccontato questa transizione in un documentario, Milano ’83, parte di un ciclo dedicato alle Capitali culturali dell’Europa, ma che alla fine risultò una radiografia impietosa della china sulla quale la città stava ormai scivolando. Naturalmente Milano ’83 non piacque a nessuno ed è stato presto archiviato. Per fortuna sono poi arrivati libri come Il crollo delle aspettative di Luca Doninelli e Le rovine di Milano di Giovanni Agosti, che hanno riaperto il processo a quella stagione e a ciò che ne è seguito.

Alberto Saibene invece, arrivato agli anni ottanta, stacca saggiamente la penna per non costringersi a un brutto finale. Comunque non si sottrae dal tentare una spiegazione sintetica del declino. Il post moderno, scrive, «non è un abito adatto a Milano, città che scioglie le sue nevrosi nel lavoro».

Una notazione finale: i 692 nomi dell’indice si prestano inevitabilmente a una caccia a chi manca. E tra i nomi che non compaiono c’è stranamente quello di un protagonista «eretico» che ha attraversato tutta questa stagione milanese, Giovanni Testori. Certamente lui era cittadino della «grande Milano», in quando novatese. Ma basta rileggere la straordinaria stroncatura della mostra di Gae Aulenti al Pac, pubblicata sul Corriere della Sera, per capire quanta conoscenza avesse della borghesia colta e operosa ma anche delle sue incongruenze.