È stato un pezzo di storia fremente della musica italiana del secondo dopoguerra, fremente e positiva. In quel crocevia trafficato e senza diritti di precedenza dove a un certo punto, mezzo secolo fa, sono cominciati ad arrivare tutti assieme gli stimoli della musica classica, del jazz, del rock, della parte più nobile della musica pop, delle note folk. Bisognava saperli cavalcare senza supponenza, con molta perizia e molta creatività quei generi pronti a collidere, non a incontrarsi. Trasformare in pietanza profumata quanto, sulla carta, avrebbe potuto diventare anche indigesta sovrabbondanza di ingredienti. O babele linguistica senza possibilità di comprensione reciproca. Vittorio De Scalzi in quel crocevia sapeva abitare con una rilassata eleganza da folletto quasi blasé, sapeva indirizzare i flussi, e l’incontro in musica è stato la pietra angolare che ha retto tutta la sua vita di musicista e di uomo.
Settantadue anni possono sembrare molti o pochi, a seconda di come li hai spesi. La bella vita in musica di Vittorio De scalzi, giudicata ora sul filo di migliaia di concerti generosi (l’ultimo il 14 luglio, a Sanremo), ma soprattutto di decine di incisioni che hanno contribuito a scrivere la storia delle note di questo paese, con i «suoi» New Trolls e da solista, a questo punto ci appare troppo breve. Chissà qual sorprese ci avrebbe ancora regalato De Scalzi, il sorriso sbarazzino e la battuta pronta, la camicia di jeans o candida e il fisico asciutto da eterno ragazzo, la chitarra tra le mani, una tastiera a rinforzo davanti per imbastire gli accordi, il fido flauto traverso pronto a inanellare volute di suono con l’identico approccio di Ian Anderson dei Jethro Tull.

LA CANZONE PERFETTA
La conta di una vita in musica scandita da così tanti momenti splendidi da non poterli elencare tutti, nel cuore di generazioni di appassionati, è quasi impossibile. È sommamente ingiusto e riduttivo pensare a Vittorio De Scalzi come all’uomo che ha scritto Quella carezza della sera: una canzone semplice e perfetta, certo, ma Vittorio ha fatto ben altro. Bisogna procedere per spot, per aperture rapsodiche che diano conto di quanto la musica e Vittorio De Scalzi fossero una cosa sola. Da quando aveva quattro anni, e sua madre pianista gli insegnò come domare i tasti bianchi e neri di un pianoforte. I suoi New Trolls nascono semplicemente Trolls, nel 1966: quel «new» sta a significare che s’èra aperta una nuova era di coraggio e sperimentazione, con gli strumenti elettrici. Come in Inghilterra. Il progressive rock. Il primo frutto è il magmatico Senza orario senza bandiera, primo album concept della storia italiana: i testi del poeta selvatico cieco Riccardo Mannerini rivisti dal giovane amico Fabrizio De André, tale per tutta la vita, per Vittorio (suonerà per lui la chitarra in Non al denaro, non all’amore né al cielo, e in suo onore i suoi concerti in duo, a fianco del virtuoso degli strumenti a fiato Edmondo Romano si chiameranno Il suonatore Jones). Poi arriva la scossa forte. Vittorio con i suoi New Trolls, potendo contare sulla chitarra incendiaria e hendrixiana di Nico Di Palo, anche vocalist stratosferico, Gianni Belleno alla batteria, Giorgio D’Adamo al basso, Mauro Chiarugi alle tastiere trova l’intesa con il compositore Luis Enriquez Bacalov: ne scaturisce, nel ’71 , l’imprevedibile ed elegante Concerto grosso per i New Trolls, secondo la formula antica barocca: un piccolo gruppo messo a confronto con un’orchestra. Uno dei primi esempi di «gruppo rock con orchestra», tra grinta e compostezza estremi. La seconda facciata, coraggiosissima, è una libera improvvisazione nella sala di registrazione vuota.
Vittorio De Scalzi sarà sempre molto legato all’idea del «concerto grosso»: a questa prima esperienza ne seguiranno altre, dipanate nei decenni, di diverso spessore e intensità: il secondo più debole, il terzo notevole, un quarto, accreditato a Concerto Grosso: The Seven Seasons (2007) con la più bella ballad progressive rock scritta dagli anni Settanta, Dance with the Rain, a firma De Scalzi, naturalmente. I New Trolls non reggono uniti la sferza del tempo e del successo: Vittorio da una parte, a formare i New Troll Atomic System con Giorgio D’Adamo. Saranno notevoli avventure nel campo del jazz rock, poco gradite allo zoccolo duro, ma negli anni rivalutate degnamente, gli altri che diventano Ibis. Ci vorranno anni per ricomporre gli attriti, ma quando Nico Di Palo, segnato da un incidente stradale che lo ha menomato gravemente tornerà sul palco con Vittorio, in anni recenti, riuscendo perfino a ritrovare i suoi sovracuti, saranno lacrime di gioia, per i fan. Passano in secondo piano i mille tronconi, le mille sfaccettature di gruppi e situazioni che, a vario titolo, richiamano il nome New Trolls.

SOLISTA
Nei fatti, per molti anni, immobilizzato in una pop music tanto elegante e rifinita quanto poco gradita a chi amava il gruppo di Vittorio aperto alla sperimentazione, ai brani complessi ma che non perdevano comunicativa, alla parole profonde. Gli ultimi vent’anni di intensa attività musicale di Vittorio sono stati tra i più belli della sua carriera, e tra i più liberi: in primis perché ha potuto finalmente portare sui palchi dal vivo i «concerti grossi», e poi perché tutta la consumata abilità del songwriter, del vocalist d’eccellenza, del musicista polistrumentista sopraffino sono confluite in un disco solistico del 2008 che, sicuramente, sarà in futuro considerato uno degli apici della creatività di Vittorio De Scalzi. Si tratta di Mandilli: chi ha pratica dell’ostica lingua dei liguri vi dirà che significa «fazzoletti», in copertina il porto di Genova, e Vittorio che saluta un aereo che passa sventolando il suo «mandillo» bianco.
Un disco-capolavoro tutto in genovese, in cui Vittorio ritrova la collaborazione con il fratello Aldo, oggi affermatissimo compositore di colonne sonore con Pivio, e che vuol essere la personale e riuscita Crêuza de mä di De Scalzi: se provate a leggere i testi nel libretto (in traduzione italiana!) scoprirete molti rimandi al magistrale disco mediterraneo dell’amico Faber, e non a caso ospite c’è chi le musiche di Crêuza le costruì, Mauro Pagani, e il già citato Edmondo Romano specialista di suoni al profumo di basilico e olio d’oliva.
Quattro anni fa un altro centro magistrale, Gli occhi del mondo. Erano saltati fuori degli inediti del poeta Mannerini, De Scalzi ci mette mano, dopo un primo tentativo a vuoto, con il collega Marco Ungaro, e ne scaturisce un disco che sa di jazz, di country, di rock, di canzone d’autore classica: Vittorio si muoveva con scioltezza tra i generi, si sarà compreso. E ci sono altre belle storie da raccontare, a testimonianza di una vitalità che era tale anche nell’aspetto fisico, in quell’essere eterno ragazzo innamorato della musica: aveva fondato un «supergruppo rock» che si chiamava ironicamente Slow Feet Band (Mauro Pagani, Franz Di Cioccio, Paolo Bonfanti, Reinhold Kohl), a gettare un ponte tra il rock blues e De André. Nel 2017, al Teatro San Carlo di Napoli si festeggiano i cinquant’anni di carriera di Vittorio: conduce il gentile e sfortunato Fabrizio Frizzi. De Scalzi conosce i Renanera, gruppo neo folk lucano, assieme cantano Crêuza de mä-Na strada ‘miezzo o mare, genovese e napoletano, nella traduzione di Teresa De Sio. Con quei ragazzi inciderà un intero album magnifico del 2019, parte in genovese, parte nelle lingue del Sud: Vento di terra, vento di mare. Su quei venti viaggia, ora, il «Suonatore Jones».