Questa intervista è la rielaborazione di una lunga chiacchierata con Vittorio Armentano avvenuta a Roma alla fine del 2017. Armentano è regista cinematografico e televisivo il cui lavoro merita di essere ricordato nel contesto del cinema italiano dopo il Neorealismo.
Sodale e amico di figure come Alberto Grifi e Cecilia Mangini, il nostro ha parlato di molti temi. Oggi è possibile vedere online alcuni dei suoi cortometraggi, anche grazie a studiosi come Bruno Di Marino che si interessano al suo cinema.


Raccontaci qualcosa dei tuoi inizi.
Io mi ero iscritto a Medicina alla Sapienza. Volevo fare il medico, ma ebbi due intoppi. Uno era l’esame di fisica. L’altro, un esaurimento. I medici mi dissero di interrompere per un anno. Allora mi misi a seguire un corso di estetica di cinema, e mi sono talmente distratto che non sono poi più tornato indietro! Girai un documentario con un amico. Per questo, acquistai una Payard. Feci una ricerca su una poetessa del Cinquecento, Isabella di Morra. Questa ebbe una vita drammatica in un paesino vicino a quello di mia madre, nel profondo della Lucania. Andai lì – a Valsinni – e filmammo il posto. Subito dopo, mio fratello mi introdusse a collaborare con il settimanale Il Punto, dove ho fatto per un paio di anni il giornalista, occupandomi di cinema e letteratura.
Ci sono state figure importanti per te in quegli anni?
Sì, il montatore e scrittore Renato May. Lui mi ha insegnato che cos’è il montaggio. Mi ricordo che un giorno mi portò al Centro Sperimentale, dove insegnava. Vedemmo Alexandr Nevskij (1938) in moviola. Fu incredibile. Mi fece scoprire molte finezze di montaggio. Per esempio, tutti i colpi di spada, interrotti da 4-5 fotogrammi in mezzo per amplificare l’azione. Ma non solo. Ho imparato molto. Inoltre, mentre facevo il servizio militare, sempre attraverso May ho conosciuto un produttore, Nasso, con il quale ho iniziato a fare documentari. Ora, devo dire la verità, il Neorealismo non mi è mai piaciuto. Avevo studiato altro: antropologia, psicanalisi. Ma sembrava non esserci spazio per fare altro. Allora mi chiedevo se fosse possibile affrontare determinati problemi sociali attraverso un linguaggio nuovo. Per questo, nel gruppo in cui ero – Del Fra, Cecilia Mangini, Miccichè e altri – ero un po’ considerato la pecora nera, sebbene avessi ottimi rapporti con tutti. Soprattutto con Mangini. La trovo la migliore documentarista di quel periodo. Però, ecco, eravamo completamente all’opposto. Allora, per dimostrare che si potesse fare qualcosa di diverso, presi due/tre temi tipicamente neorealisti e cercai di far film su questi argomenti un po’ diversi dal solito: Il pignoramento e Cantiere 62.
Nella tua visione si sente anche la presenza di molta arte.
In quel periodo conoscevo molti artisti. Per esempio, Burri. Andai a trovarlo con Alberto Grifi al suo studio a Saxa Rubra. Allora lavorava ai cretti, e io penso d’aver subito la sua influenza proprio in Cantiere 62. Oltre a lui ci sono stati Piero Dorazio ma soprattutto Toti Scialoja. Siamo stati molto amici. Poi, quando ho fatto Dinanzi alla legge (1970), ho avuto l’aiuto di dell’artista Marco Balzarro, sconosciuto ai più ma per me uno dei migliori in assoluto. Uno che per me vale come Emilio Villa.
A proposito di Villa, la vostra collaborazione ha portato al progetto di «Homo Edens», ma anche alla presenza di suoi testi nei tuoi corti. «Il dolore è lontano», «Image In» (attualmente irreperibile), e quello su Boccioni.
Sì, ma è una eccezione, perché tutti i miei documentari si possono definire, alla fine, come lavori senza commento parlato. Al contrario, ci sono spesso frasi estrapolate da grandi autori della letteratura. Joyce, Lucrezio. Materia testuale e sonora.
Dopo il periodo dei documentari per il cinema con produttori come Nasso e Patara, arriva l’Istituto Luce.
Fu grazie a Claudio Forges D’Avanzati. Divenne direttore dell’Istituto. Mi chiamò e presi parte al progetto di una Enciclopedia dell’arte italiana. I miei contributi furono Il Futurismo, Il Grande Barocco Romano e Da Borromini a Guarini. Legato al primo tema c’è il mio documentario su Boccioni per cui Villa scrisse il testo.
Poi, ho fatto quello che è il mio lavoro più impegnativo dopo quanto svolto con l’Istituto Luce, cioè il ciclo dedicato ai grandi direttori d’orchestra. Fra i nomi: Muti, Abbado, Ozawa, Markevitch.
Il rapporto con Egisto Macchi, autore delle colonne sonore dei tuoi documentari, si interrompe in questo periodo?
Vero, ma il lavoro di Macchi l’ho sempre seguito e amato, fin dai tempi del gruppo di «Nuova Consonanza», con Morricone e altri. Io ho spesso assistito alle loro improvvisazioni. Poi, ho lavorato col figlio Lamberto.
Macchi, comunque, era geniale. Per esempio, in uno dei miei film, Le immagini, c’era una colonna sonora che non ci piaceva. Allora lui che fece? Mise il nastro al contrario! Una volta si lavorava così, per intuizioni. Oggi, che si può far tutto, lo stimolo sembra perso.
Quando nasce la tua società?
La Quadro Film nasce nel 1985, con l’aiuto di D’Avanzati. Claudio morì dopo qualche anno. A lui è subentrato un mio ex assistente ora ottimo regista, Enrico Agapito. Fra i primi progetti, abbiamo realizzato documentari per la RAI sui Premi Nobel per la scienza.
Nei primi anni Novanta però torni alla musica.
Nell’occasione del bicentenario della morte di Mozart, la RAI si accorse di essere l’unica televisione europea a non aver celebrato l’occasione, e allora mi chiamò in tutta fretta per chiedermi di realizzare qualcosa. Facemmo quattro puntate, interagendo con figure incredibili. Inoltre, durante le ricerche, avevo accumulato materiale che mi ha ispirato a fare altro, come – per esempio – i collage. Una attività che continuo tutt’oggi, insieme alla rilettura di certi classici, come Proust e Beckett.
Ma c’è comunque un film recente.
Sì, il documentario su Franco Maria Ricci. Quando ci siamo risentiti, lui mi disse che stava costruendo il più grande labirinto del mondo. Otto ettari. Un pazzo. Due anni fa sono tornato lì, ho visto il labirinto completato, e ho finito per girare il lavoro.
A questo punto, non posso non chiederti dei progetti di lungometraggi che sono rimasti nel cassetto.
Il primo che volevo fare era da Rubè di Giuseppe Antonio Borgese. Fui sconsigliato. Borgese è uno dei grandi scrittori italiani dimenticati. Poi c’è stata la collaborazione con Pier Giuseppe Murgia. Ho scritto due o tre sceneggiature con lui. Con Marco Balzarro scrissi invece un adattamento di Tre croci di Federigo Tozzi. L’ultimo progetto, andato avanti fino a due, tre anni fa, è stato su Il fiume di pietra di Giuseppe Bonaviri, scrittore che fu candidato due volte al Nobel. Siamo stati molto amici. Sarebbe stato un film diverso dallo standard, con lo sbarco degli Americani nel ’43 in Sicilia e gli eventi visti da due bande di ragazzini che scambiano il conflitto bellico per un gioco, scambiando i belligeranti per Saraceni. C’era tutto, produttore compreso.