Se c’è una vittoria che Pechino ha portato a casa durante il Covid-19, non è tanto la capacità di contenimento della pandemia e neppure la sconfitta di Trump alla Casa Bianca.

La vittoria della Repubblica popolare sta in quella firma che, con altre 14, ha siglato domenica, durante un summit virtuale ospitato da Hanoi, il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep): un accordo commerciale che include le 10 nazioni del Sudest asiatico (Asean) e alcuni tra i maggiori Paesi di Asia e Oceania con cui Pechino non ha rapporti molto distesi: Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. In calce a un accordo che, come si dice in questi giorni, rappresenta circa un terzo del Pil e della popolazione mondiale, ci sono anche due grandi assenti: Stati uniti e India.

I PRIMI – tra isolazionismo, Pivot to Asia, guerra commerciale – sono in difficoltà nell’area asiatica e non erano tra gli invitati al banchetto (Trump si è anche ritirato dalla Trans-Pacific Partnership, accordo mai entrato in vigore tra Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam).

Quanto all’India, si è autoesclusa ritirandosi l’anno scorso durante il summit finale, facendolo fallire. L’accordo intende ridurre progressivamente dazi e tariffe su molti beni e servizi, integrando gli impegni stabiliti dall’Organizzazione Mondiale del Commercio con altre aree di lavoro che invece ne sono escluse, come e-commerce o proprietà intellettuale.

NON SARÀ UN PROCESSO facile armonizzare 15 Paesi tra cui colossi come Cina, Giappone o Indonesia, tanto che è stata proprio la bandiera dei dazi quella che Delhi ha sventolato l’anno scorso facendo fallire il summit del 2019: troppa concorrenza dalla Cina, dall’Australia o dalla Nuova Zelanda.

Ma in realtà sembra esserci anche molta politica attorno all’accordo che pare voler mettere al riparo una fetta di mondo da fughe in avanti a colpi di sanzioni o divieti. Persino tra nazioni, come Thailandia e Singapore, Australia o Corea, tradizionalmente filo americane.

NON SARANNO SOLE ROSE: si tratta di Paesi molto diversi, alcuni dei quali strutturalmente deboli sia per la fragilità dell’economia sia per i possibili risvolti sociali dell’accordo. Ma il Rcep è anche una piattaforma di cooperazione. Si vedrà quanto in futuro. Le preoccupazioni comunque non mancano: venerdì scorso diversi gruppi ambientalisti o di protezione dei diritti umani hanno messo in guardia su un accordo che potrebbe danneggiare i piccoli agricoltori, causare più conflitti per la terra e lasciare i lavoratori nelle nazioni più povere senza protezione durante il Covid.

Ridurre drasticamente le tariffe dei prodotti agricoli – dicono – potrebbe per esempio avere conseguenze terribili per i piccoli produttori e le donne che lavorano per la sussistenza con agricoltura su piccola scala. Ci sarà maggior benessere o perdita di posti di lavoro? E che fine faranno piccole e piccolissime imprese? Chi infine proteggerà l’ambiente dalla fame di «sviluppo»?

SE IL CAMMINO FUTURO non è scevro da ostacoli, il passato è stato lungo e impegnativo. L’idea del Rcep nasce a Bali nel 2011 durante un vertice dell’Asean. Il processo viene formalizzato l’anno dopo durante un nuovo summit Asean in Cambogia. Nel 2012 i rappresentanti dei Paesi sono 16 e approvano le linee guida e gli obiettivi per la negoziazione del partenariato economico: ci sono il piccolissimo Brunei e la grande Indonesia, la ricca Malaysia, la tecnologica Singapore, il rampante Vietnam, la Cambogia, la Thailandia, le Filippine e il piccolo arretrato Laos. Al tavolo siedono anche i sei partner Asean-Fta (Australia, Cina, India, Giappone, Corea, Nuova Zelanda).

Ci vogliono otto anni per mettere tutto nero su bianco, vincere le resistenze, negoziare i dettagli.

All’ultimo Delhi si ritira. Un ritiro che precede la «guerra delle pietre» al confine con la Cina qualche mese fa, mentre la guerra commerciale di Trump si sta trasformando in un’operazione militar-muscolare nel Pacifico con tre portaerei in movimento. Ma adesso il dado è tratto. Vittoria economica e politica per Pechino ma una buona opportunità anche per gli altri protagonisti.

Anche se, come sempre, i più deboli rischiano grosso visto che nessuno li ha invitati al tavolo per difendere i propri diritti.