Commemorando la strage di Nassiriya alla Camera la deputata del Movimento 5 Stelle Emanuela Corda ha mostrato un coraggio che solo il candore che rifugge la falsità può imporre al buon senso dettato dalla prudenza. Con parole essenziali, che si addicono al lutto, ha ricordato accanto ai 19 italiani anche i 9 iracheni deceduti insieme a loro, arrivando a includere il giovane kamikaze: nel suo modo di vedere «anch’egli fu vittima oltre che carnefice». Uno sguardo che mette insieme le vittime a esso più care e quelle più sconosciute e distanti è uno sguardo aperto al mondo, che rinuncia alla facile distinzione tra buoni e cattivi. Questa distinzione (uno steccato che allevia la nostra ansia) ci costringe a guardare il muro della caverna di cui siamo prigionieri, incapaci di vedere in presenza della luce (secondo la metafora di Platone). Anche la più evidente delle verità è invisibile nel buio: la nostra classe politica intenta a guardare per terra, cercando di evitare le bucce di banana, non riesce più a vedere, come si suol dire, oltre la punta del suo naso.

Il discorso di Corda ha scatenato proteste indignate segnate dall’inganno della semplificazione: «I kamikaze erano assassini e basta». Il più retorico è stato il democratico Giacomo Portas che ha invitato Corda a guardare in faccia i parenti delle vittime italiane. Questo abuso del dolore altrui ha costretto Corda (criticata all’interno del suo stesso movimento) a chiedere scusa. Ai parenti delle vittime bisogna offrire, oltre che solidarietà (la condivisione della sofferenza), una risposta che dia senso alla loro (nostra) perdita, che renda comprensibili e emotivamente gestibili le cause di un disastro, e non un’idealizzazione del sacrificio che ci allontana dalla vita vera. Dire che i kamikaze sono assassini non basta, limitarsi a questo non serve a nulla. Cosa significa in un mondo sempre più globalizzato e sempre più diviso (una contraddizione a cui prestiamo poca attenzione) che una parte consistente del movimento islamico sia prima diventata un nostro nemico, poi dimora privilegiata del fanatismo religioso e, infine, terreno di cultura di atti criminali folli? Vivendo in sempre maggiore contiguità con altre culture non può che destare preoccupazione il fatto che questa contiguità è tutt’altro che scambio e prossimità ma degenera in riserva reciproca e separatezza. Di ciò che lasciamo correre abbiamo l’intera responsabilità specie se l’indifferenza ci fa cogliere impreparati dalla violenza. Il carnefice è agito dalla violenza di cui egli è la prima vittima e limitarsi a condannarlo senza riconoscere la nostra responsabilità nella produzione della violenza che l’ha plasmato, significa rifugiarsi in un vittimismo forgiato dall’insincerità che toglie autorevolezza e senso alla nostra condanna. Dire che il kamikaze di Nassiriya è carnefice ma anche vittima è dire (auspicare) che il suo gesto non è irreversibile che la malattia che l’ha creato si può curare. Se il nostro vicino nel mondo multiculturale in cui dimoriamo diventa il più perfetto e irrecuperabile degli estranei la nostra vita diventa calcolo coperto dai falsi sentimenti. Siamo tutti nudi e bisogna decidersi se la nostra nudità è ferita narcisistica che dobbiamo coprire con la falsità (la nudità sotto vestiti immaginari) o se è esposizione all’altro e alla vita (spogliarsi delle riserve). Esporsi è un rischio ma non è qui che sta in agguato il carnefice (anche se questo è il luogo in cui lo colloca la nostra diffidenza). Il carnefice passeggia in mezzo a noi: gli fa strada la nostra ipocrisia.