Studi di tatuatori, pub, tavole calde, barbieri specializzati in tagli «alla marine», centri di bellezza che promettono «massaggi thailandesi», lavanderie e magazzinieri.
In queste attività si annida l’essenza della vita sospesa che caratterizza la città dell’esercito per eccellenza: Twentynine Palms, nel deserto della California, casa della più grande base militare dei marines al mondo.
Killing Time – Entre deux fronts è infatti il titolo del documentario della regista belga Lydie Wisshaupt-Claudel, presentato in questi giorni al Milano Film Festival.
«Sono stata per la prima volta negli Stati Uniti a 18 anni – racconta l’autrice – per un’esperienza di scambio culturale durante il liceo. Era il 1999, e all’epoca l’America non era ancora in guerra, ma ricordo che tutti i ragazzi venivano perseguitati dalla propaganda e dai reclutatori per entrare nell’esercito. La cosa mi aveva colpita tantissimo: io sono cresciuta in Francia dove non avevo mai visto niente del genere». Tornata negli States quasi 10 anni dopo, nel 2008, Claudel trova un paese per cui ormai la guerra in Iraq e in Afghanistan va avanti da tempo: «Ho fatto un viaggio lungo la West Coast, così ho scoperto l’esistenza di Twentynine Palms. In un primo momento mi è sembrata una zona di guerra; ho passato lì due giorni e ho deciso che ci avrei girato un film».

La regista segue i militari e le loro famiglie, nessuno in particolare, tutti immortalati nelle loro occupazioni quotidiane. Ma la vera protagonista è la città, autonominatasi «bellissima oasi nel deserto», le sue strutture tutte tese ad ospitare e servire i marines durante il loro soggiorno fra una missione e l’altra e tutte destinate a languire durante le loro lunghe assenze. «La mia idea principale era di raccontare la città stessa», spiega infatti Claudel. «Perché i militari che la abitano non stanno mai a lungo, sono sempre in movimento tra un incarico e l’altro e sono destinati a non sentirsi mai a casa.
Così fin dal principio mi sono messa a lavorare anche con i proprietari dei negozi, per indagare su come si fossero adattati a vivere lì».

Killing Time inizia con il rientro a casa di un gruppo di soldati, ma il tempo è circolare a Twentynine Palms: il ragazzo che vediamo nelle prime sequenze ritirare la sua moto dal magazziniere è destinato a tornare a breve per riconsegnargli le sue cose da custodire durante un’altra lunga assenza.
«Per quelli che sono sposati e hanno figli è più presente l’idea di ’tornare a casa’. Ma non in tutte le case vivono delle famiglie, molti sono soli. E le case stesse non offrono approdi stabili: sono solo temporanee, indistinguibili le une dalle altre». I ragazzi tornati dal fronte mangiano insieme, scherzano su quanto fa schifo il rancio, bevono birra, giocano coi figli, fanno dei falò, quasi tutti si tatuano – molto quotato il motto «death before dishonor», meglio morire che perdere l’onore – si fanno tagliare i capelli e mandano le uniformi in tintoria.

Solo occasionalmente emerge qualche riferimento al pericolo, la paura e la morte che li accompagnano costanti: in un racconto di un marine, al tatuatore appunto, su quanto sono bravi i talebani a nascondere le mine, in un gruppo di lettura della Bibbia che raccomanda a Dio la famiglia di un soldato suicida e durante un funerale, in cui incidentalmente si fa riferimento al fatto che in America oltre 170.000 veterani sono homeless. L’altra faccia della medaglia sono infatti i reduci paranoici dimenticati dallo Stato che Minervini raccontava nel suo Louisiana – The Other Side.
Nello sguardo di Claudel però non c’è giudizio, neanche politico – «Non mi interessava giudicare ciò che fanno o come lo fanno» – solo una forma di dolcezza verso la tristezza che permea tutta Twentynine Palms: «una città – dice – in cui nessuno si sente giudicato ma in cui si ha la sensazione di essere intrappolati per sempre, come in una prigione in mezzo al deserto, stranieri nelle proprie stesse case».
Sempre destinati a ricordarsi di stare vivendo una vita sospesa.