Oltre lo stretto c’è l’isola. Bisogna attraversarlo per capire chi siamo. Forse solo da dove veniamo. Il viaggio di Clyde Chabot in scena al Fabbrichino di Prato è leggero. Solcato da delicata energia e ostinato stupore naviga fra ricordi e immagini. Echi di una vita perduta che galleggiano sulla palude della memoria. Si chiama Sicilia questo lessico familiare che Chabot, dopo l’uscita al festival di Avignone, presenta nella sua versione italiana. Sulle tracce dei nonni, emigrati alla fine dell’800 dalla Sicilia verso la Tunisia, prima di trasferirsi in Francia negli anni 50, Chabot costruisce una sorta di controcanto autobiografico. Che, con sottigliezza emotiva, sposta l’asse della personale ricerca genealogica sulla questione politica dell’esilio. Col pubblico seduto a una grande tavola, come per una riunione di famiglia dagli esiti non scontati, il racconto procede contrappuntato da una cerimoniale, struggente intimità. Uno svelamento di sé che fa del pudore la cifra narrativa, sospeso nell’indeterminatezza di una fotografia ingiallita.