Cultura

Vite di passaggio

Vite di passaggioUn frame di The Stuart Hall Project di John Akomfrah

Ritratti Una riflessione intorno alla figura di Stuart Hall, a partire dal film di John Akomfrah. Il teorico dei «cultural studies» sarà ricordato al Guggenheim di New York il 25 aprile

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 5 aprile 2014

Un senso di «incertezza e inquietudine», e una certa nostalgia «per ciò che non può essere»: così Stuart Hall, nelle prime battute del film di John Akomfrah, The Stuart Hall Project (2013), riassume il debito da lui contratto con la musica di Miles Davis fin da quando, all’età di vent’anni, il grande jazzista afro-americano gli «mise il dito sull’anima». E «incertezza e inquietudine» avvolgono parole e immagini nel film, come disseminate dalla tromba di Davis, a cui si deve gran parte della colonna sonora: quest’ultima diventa anzi lo spartito su cui parole e immagini si intrecciano, dando vita a uno straordinario racconto a un tempo di un’avventura intellettuale (quella di Hall, di cui si ascoltano brani di interventi lungo l’arco di un cinquantennio) e di una storia, quella britannica del dopoguerra, ricostruita in chiave globale, seguendo il duplice filo conduttore dell’eredità dell’Impero e delle migrazioni postcoloniali.

Tra i protagonisti della «nuova sinistra» inglese sul finire degli anni Cinquanta (fu tra l’altro il primo direttore della New Left Review), Stuart Hall è stato a tutti gli effetti uno degli intellettuali più innovativi e importanti della seconda metà del Novecento: straordinario saggista e grande organizzatore culturale più che autore di opere «sistematiche», è legittimamente considerato uno dei padri dei cultural studies, e ha offerto un contributo imprescindibile, per citare soltanto qualche tema, allo studio di vecchi e nuovi media, pratiche artistiche e sub-culture giovanili, processi di criminalizzazione e razzismo, culture popolari e ideologia, multiculturalismo e postcolonialismo.

A guidare la ricerca di Hall, come si legge in una bella conversazione con Miguel Mellino (La cultura e il potere, Meltemi, 2007), è sempre stato l’interesse per «il rapporto, la connessione e l’interazione tra cultura e potere». E la «cultura» si è talmente allargata con il passare degli anni da finire non paradossalmente per contrarsi, diventando una lente straordinariamente efficace per analizzare le trasformazioni del rapporto tra potere e soggettività: sia dal punto di vista delle pressioni che il primo esercita sulla seconda, attraverso dispositivi di assoggettamento, sia soprattutto dal punto di vista delle pratiche con cui i soggetti costruiti come «subalterni» si sottraggono alla presa del potere, lo sfidano e lo costringono a riorganizzarsi. Il Sessantotto e il femminismo sono stati tornanti decisivi in questo senso. Il femminismo in particolare, ha scritto Hall, «è ’arrivato come un ladro di notte’; ha determinato un’interruzione, ha fatto un baccano indecoroso, si è impadronito dell’epoca, ha messo in disordine il tavolo degli studi culturali», obbligando questi ultimi a reinventarsi e mostrando l’impossibilità di una loro riduzione a un «canone».

Arrivi e partenze

«Incertezza e inquietudine» segnano del resto l’esperienza di Stuart Hall fin dal suo principio. Nato in Giamaica, giunse in Inghilterra nel 1951 per studiare a Oxford, mentre prendeva avvio la grande migrazione dalle «Indie occidentali» che avrebbe cambiato radicalmente la società e la cultura inglesi. Anche se la sua esperienza in Gran Bretagna si svolse nelle aule universitarie, e non nelle bettole, nei dormitori e nelle fabbriche frequentati dai lonely Londoners immortalati da Sam Selvon in un grande romanzo del 1956 (Londinesi solitari, Mondadori, 1998), possiamo ben immaginare che Hall condividesse qualcosa del mood di quei proletari caraibici che «stanno in Inghilterra da tempo, e tuttavia non riescono a togliersi l’abitudine di andare a Waterloo ogni volta che arriva un treno con passeggeri dai Caraibi. Gli piace vedere facce familiari, gli piace guardare i compatrioti scendere dal treno e, a volte, potrebbero individuare qualcuno che conoscono».

A Waterloo, del resto, i protagonisti del romanzo di Selvon andavano non tanto per alimentare il sogno del «ritorno», quanto per convivere con il suo necessario continuo «differimento»: per fronteggiare appunto l’incertezza e l’inquietudine collegate a quella che proprio Hall avrebbe definito in pagine molto belle la condizione della diaspora, ovvero alla sensazione di vivere all’interno di due diversi spazi senza «appartenere» completamente a nessuno di essi.

La migrazione dalle Indie occidentali, scriveva Hall, era del resto «diaspora di una diaspora»: «i Caraibi sono già una diaspora dell’Africa, dell’Europa, della Cina, dell’Asia, dell’India, e questa si è ri-diasporizzata in Gran Bretagna».

Suggestioni gramsciane

Questi temi hanno assunto un’importanza via via crescente nel lavoro di Hall, sia per quanto riguarda lo studio delle pratiche culturali e artistiche che hanno fatto dell’esperienza della diaspora (tanto in Giamaica quanto in Inghilterra) una fonte di creatività e ispirazione sia per quanto riguarda l’analisi militante delle trasformazioni del razzismo e il tentativo di assumere la diaspora come criterio generale di soggettività politica nel tempo della globalizzazione. Hall è stato a un tempo testimone e protagonista del divenire «multiculturale» della Gran Bretagna, tenendosi a distanza di sicurezza dalle retoriche mainstream sul multiculturalismo e seguendo piuttosto le pratiche (culturali e artistiche, certo, ma anche di riot e di materiale contrasto al razzismo) attraverso cui i migranti postcoloniali si sono letteralmente fatti largo nella società, sfidando immagini consolidate della britishness e conquistando spazi e diritti mai garantiti una volta per tutte (un altro splendido film di John Akomfrah, The Nine Muses, del 2010, documenta e interpreta questo processo).

«Senza garanzie» rimase sempre del resto la ricerca di Hall, come quel «marxismo senza garanzie» a cui intitolò nel 1986 un suo saggio sul problema dell’ideologia.

Il confronto con Louis Althusser, e poi con gli sviluppi del «post-strutturalismo francese», fece da sfondo negli anni Ottanta a un’originale lettura dell’opera di Gramsci, da cui derivò una serie di suggestioni proprio «per lo studio della razza e dell’etnicità» (per richiamare un altro titolo di un saggio di Hall, anch’esso del 1986). Centrale, nel lavoro di Hall di questi anni, era il tentativo di comprendere «come il sistema del capitale possa funzionare mediante differenziazione e differenza (invece che mediante somiglianza e identità), se intendiamo prendere sul serio la questione della composizione culturale, sociale, nazionale, etnica e sessuale delle particolari, e storicamente diverse, forme di lavoro». È in fondo questa la traccia che Hall seguì anche nell’analisi del «thatcherismo», di quei «tempi nuovi» in cui una nuova egemonia conservatrice, costruita dapprima come reazione alla carica eversiva del Sessantotto e dei movimenti che attorno a quell’anno si erano dispiegati, faceva da sfondo a poderose trasformazioni economiche, sociali e culturali, nel segno della crisi del «fordismo» e delle figure sociali e politiche che lo avevano caratterizzato.

Gli scritti di Hall sul thatcherismo consideravano queste trasformazioni e questa crisi irreversibili, e avvertivano conseguentemente dell’insufficienza di battaglie puramente difensive, condotte nella prospettiva di un «ritorno» al welfare state messo in discussione dai governi Thatcher.

Nelle aspre polemiche che seguirono Hall fu accusato da esponenti della sinistra britannica di complicità con il neo-liberalismo prima, con il new labour poi: la cosa non può stupire, capitò anche a chi in Italia, più o meno nello stesso periodo, avviò un percorso di analisi critica del post-fordismo a partire da un’analoga convinzione che la grande trasformazione avviata con la crisi dei primi anni Settanta mettesse in discussione la stessa politica tradizionale della sinistra (e viene da aggiungere che quello tra Stuart Hall e il lavoro teorico italiano di provenienza operaista è stato davvero un incontro mancato in quegli anni!).

Mappature soggettive

«Il ritorno del soggetto» era uno dei temi fondamentali che Hall proponeva alla discussione della sinistra nei «tempi nuovi»: in altre parole, l’esigenza di guardare oltre i modi consolidati di pensare e costruire la soggettività, che erano stati sfidati dai movimenti prima che dalle politiche neo-liberali; di cartografare le nuove istanze soggettive, di seguire i percorsi e le pratiche in cui si esprimevano, con quell’ottimismo non ingenuo (e naturalmente «senza garanzie») che sempre guidò Hall. E in cui possiamo in fondo vedere l’elaborazione della nostalgia per «ciò che non può essere» che gli ispirava la musica di Miles Davis.

 

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