Dalla foresta dei suicidi in Giappone, alle strade che gli sono care di Portland. Gus Van Sant trova redenzione da quello che è probabilmente il peggior disastro critico/finanziario della sua carriera (La foresta dei sogni, quasi nemmeno uscito nelle sale americane) tornando «a casa», con un film sulla redenzione di un uomo clamorosamente imperfetto, in cui si fondono la vena più libera, sperimentale, della sua opera a quella narrativamente e poeticamente più tradizionale di film come Scoprendo Forrester e Will Hunting – Genio ribelle (1997). Il riferimento a quel grande successo di Van Sant non è casuale: Don’t Worry, He Won’t Get Far On Foot, il progetto con cui il regista è a Sundance (e sarà in concorso a Berlino) nacque vent’anni fa, dall’idea di una nuova collaborazione con Robin Williams, in un film su John Callahan, con l’attore che vinse un Oscar nel ruolo di Will Hunting in quello del famoso cartoonist di Portland . Van Sant (a Sundance solo una volta prima di questa, nel 2002 con Gerry) ha raccontato venerdì sera di non essere mai riuscito a trovare i finanziamenti.

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Nel frattempo, sia Williams che Callahan sono mancati. Il progetto è stato resuscitato grazie a un più recente interesse dalla Sony (ma il film batte bandiera Amazon, qui a Park City) e al coinvolgimento di un altro attore che aveva già lavorato con il regista, Joaquin Phoenix. Sfondo di Mala Noche e Drugstore Cowboy, e la città in cui Van Sant vive da sempre, Portland con quella sua atmosfera di controcultura eterna, tra grunge e l’impressione di un West più remoto, pensoso, di quello californiano, sono quasi personaggi del film. Diversamente da grandi protagonisti del fumetto underground americano, come R. Crumb e il poeta laureato di Cleveland Harvey Pekar (su cui sono stati lanciati due film proprio qui a Sundance), l’arte di John Callahan è meno esplicitamente autobiografica – il suo lavoro reso famoso dalle vignette pubblicate per ventisette anni sul settimanale di Portland, Wilemette Weekly e, all’apice della sua carriera, ripubblicate in duecento giornali degli States. Il disegno in bianco e nero e il tono caustico ricordano quelli di Gary Larson (The Far Side) con un più un tocco macabro alla Charles Addams. Alcolizzato da quando era teen ager, a ventun’anni Callahan rimase paralizzato dal diaframma in giù, in seguito a un incidente automobilistico nel 1972.

Fu la esperienza formativa della sua arte – a partire dal tratto quasi infantile delle sue vignette dovuto al fatto che, per usare la penna, doveva servirsi di entrambe le mani. Il titolo del film Van Sant– traducibile come: «Non preoccuparti, a piedi non andrà lontano» – è preso da quello di un suo disegno, che ritrae la posse di uno sceriffo intorno a una sedia a rotelle vuota. In effetti, a partire dalla sua menomazione, l’umorismo di Callahan non si fermava davanti a nulla; spesso i suoi cartoon erano oggetto di violente proteste. Non è difficile vedere cosa Robin Williams avesse amato nella figura di questo poeta della vignetta, iconoclasta a maledetto, di cui condivideva una comicità dissacrante a 360 gradi, tipica dei seventies, e che oggi non passerebbe più (i due erano coetanei). Possiamo solo immaginare come sarebbe stato il suo Callahan sulla base della fisicità estroversa, ipercinetica di Williams (soggetto anche di un documentario di Marina Zenovich, presentato qui al festival) . Da quello stesso personaggio, Phoenix trae un’interpretazione così interiore da sembrare zen, anche quando incontriamo il suo Callahan all’inizio, pre-incidente, in una sequenza quasi slapstick in cui, di primo mattino, fa il tutto per tutto per mettere mani su un drink. Van Sant, che firma anche la sceneggiatura tratta da un libro di Callahan, costruisce il suo film sul racconto in voice over del fumettista.

L’arco della storia in un zigzagare di flashback, agilmente evocati dalla fotografia di taglio documentario di Christopher Blauvelt e inanellati su una struttura molto simile a quella di un programma in 12 steps, il metodo di disintossicazione dell’Anonima Alcolisti grazie a cui Callahan lasciò per sempre la bottiglia. Jonah Hill, irriconoscibile, con capelli e barba biondi molto Jesus Christ Superstar, è meno uno sponsor AA che un guru spirituale per Callahan che – poco a poco- documenta il suo enlightment, dall’incidente in poi, davanti ai nostri occhi con caustiche vignette.

Quando non sfreccia per le strade di Portland ai mille all’ora, in sedia a rotelle, un sorriso d’abbandono che è quasi estasi, anche se magari si schianta contro un albero e deve esser soccorso da una banda di teen ager in skate board. Jack Black è il compagno di bevuta e d’incidente, Rooney Mara la magnifica terapeuta svedese che lo assiste. La riflessione sulla trascendenza e sulla morte occupano un posto sempre più importante nell’opera recente di Van Sant, come attraversata dal senso di un epilogo perenne a cui ci si avvicina con crescente serenità e che avvolge anche questo film, nonostante l’happy ending.