Caterina Ricciardi era affezionata al suo onomastico. La fortunata coincidenza della nascita il 25 novembre, quando si ricorda Caterina di Alessandria, la insigniva del nome della nonna e di quella che divenne, dopo la morte nel 305 a.D., una martire cristiana acquisita più che alla storia alla leggenda. L’origine del nome che Caterina favoriva (l’etimologia è incerta) è il greco katharos, ‘puro’. Quella donna sapiente, venerata poi come santa dalla cristianità, avrebbe convinto, con la purezza della parola – ciò che più attirava la studiosa Ricciardi, oltre alla sua autorevole statura –, retori e filosofi alla dottrina di Gesù. Insieme alla corona, la ruota e la palma del martirio, un’icona che la contraddistingue è il libro.
Un libro, l’ultima pubblicazione, è il regalo che ci ha lasciato Caterina Ricciardi, scomparsa nel febbraio 2020. Ho letto in bozza Novecento poetico americano (Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 398, e 48,00), excursus sulla poesia in lingua inglese del Novecento, che include entro «americana» una dose di postcoloniale. Vi si incontrano artisti e letterati oggetto delle nostre discussioni. Ma richiamiamoci a quando è iniziato tutto. A Roma (siamo all’università) Biancamaria Tedeschini Lalli riuniva, come in un cenacolo, giovani studiose impegnandole nel campo della linguistica computazionale. Un modo di studiare, attraverso la digitalizzazione, il funzionamento del testo letterario. Presso il Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico, a Pisa, si era ottenuto con le schede perforate (!) il testo del poemetto americano Paterson di William Carlos Williams. Del tutto coincidente era stato il mio progetto di ottenere dallo stesso CNUCE le concordanze di The Desert Music and Other Poems dello stesso autore su cui incentrare la tesi. Da Ca’ Foscari, dove mi ero laureata, fui inviata a Roma.
I meeting avvenivano al Magistero o più spesso a casa Tedeschini Lalli, al Lungotevere delle Navi oppure a Manziana, per discussioni di linguistica e letteratura, all’insegna del femminile con un tocco di femminismo (imperversavano le scrittrici contemporanee di Gertrude Stein), con piacevoli immersioni nella piscina privata. Così incontrai Caterina: era il 1972. Le escursioni nella cultura del privato erano bene accette per conoscerci più a fondo. Gradualmente l’empatia cognitiva scivolava nell’emozionale. Nel nostro futuro, sempre l’America. Tutte ne avevamo, obbligatoriamente, fatto esperienza.
Dei primi interessi letterari – in comune la propensione per i modernisti – si scrive nel libro, a cominciare da Williams del quale viene scelto Un sogno d’amore per introdurre le disseminazioni sperimentali degli artisti, ma anche quelle accademiche orientate a spargere e far germinare idee. Desiderio ed erotismo, con particolari (appetitosi, all’epoca dell’uscita del play) sull’apprezzamento di lui del nudo femminile bagnato in guisa di Venere capitolina uscente dall’acqua, ammirata dal poeta in visita a Roma anni prima. Il dramma, imperniato sul connubio domesticità e mito, si tinge di noir, con un infarto che quasi annienta il protagonista. Un Polanski ante litteram, che sfida l’ipocrisia e la tentazione puritana contro la purezza come, nel secolo precedente, la lettera scarlatta sul petto di Hester o la reclusa Dickinson delle notti selvagge («Wild Nights – Wild Nights!»).
Poetesse indie (si direbbe oggi) del circuito modernista animano la raccolta. Hilda Doolittle, il cui nome il fidanzato Ezra Pound «amputò» (una Ricciardi severa nei confronti del suo poeta prediletto) scorciandolo in H.D. Nei riguardi di Amy Lowell – da cui un Pound scorbutico verso la «intrigante grassona di Boston» conia, per bollarne la stravaganza, il termine «Amygismo» – il vaglio critico dell’autrice è più contenuto: poetessa «abile» e «brava», ma non quanto Pound, «nell’arte dell’ekphrasis». Con Marianne Moore, «an American La Fontaine» a detta di John Ashbery, con il cui bagaglio di varietà zoologiche e zoomorfiche all’interno della sezione «Modernismo» Ricciardi si diverte con sguardo da letterata alludendo ai «mille uccelli nativi dai nomi colorati le cui ali ella fa frullare tra le righe».
Mentre la famiglia riordina oggi la collezione di Caterina catalogando quanto si trova nelle librerie dei due piani della sua bella casa in via dei Coronari, emergono via via pubblicazioni rilegate, in brossura, fascicolate, tascabili e non poche riviste alternate a veri e propri scrigni di sue letture utili per compiere il processo inverso che la conduceva a Pound attraverso un rigore filologico oggi forse troppo poco apprezzato. La sua biblioteca contiene, tra numerosi altri, Omero, Aristotele, Saffo, Euripide, Teocrito, Callimaco, Dionigi l’Areopagita, Origene, Plutarco, quindi Catullo, Virgilio, Ovidio, Tibullo, Properzio, Orazio, Plinio, non inclusi, per ora, nell’elenco che va completandosi contenente opere di americanistica, anglistica e studi postmodernisti.
L’isola di smeraldo, da cui il processo di emigrazione trasferisce, nei secoli, un numero esorbitante di suoi figli in America, infervora la curiosità intellettuale della ricercatrice. Così scopre, al tempo della prestigiosa borsa Fulbright ottenuta dopo la laurea, per mano di un autore dalle molteplici identità, dalla verve satirica e dalla scrittura labirintica, il personaggio dell’Irlanda celtica, Sweeney. Flann O’ Brian, allora poco conosciuto fuori dall’Irlanda, forse ne contagia, con quel suo spirito nonsensical che sostiene l’understatement, se non la serietà disciplinare, il vissuto del quotidiano. Come quando, alcuni anni fa, ci spinge a presumere, tra il serio e il faceto, che abbia ‘adottato’ un bambino. Era l’epoca dell’incontro con il cucciolo che battezzerà Tatum, inconsolabilmente sopravvissutole.
Da O’Brian ai due, anzi tre, Nobel, gli irlandesi Seamus Heaney e William Butler Yeats e l’americano divenuto cittadino britannico, T. S. Eliot, il passo fu obbligato, ma avvenne molto lentamente. Lo provano la ventina di volumi di Heaney, trentaquattro di o su Yeats e quarantadue di o su Eliot. Il primo, mi scriveva Caterina in una email, lo aveva incontrato nel 2013 alla Casa della Letteratura, nel Giardino degli Aranci, quindi rivisto a Dublino «con benedicente consenso a tradurre o meglio ritradurre qualsiasi cosa volessi». L’occasione, il Convegno ‘Ezra Pound and Modernism: The Irish Factor’ alla metà di luglio dello stesso anno. Sul ‘ritradurre’, le ricordai che Heaney aveva intrattenuto il desiderio di tradurre lui l’intera prima cantica dantesca per il suo «splendore immaginativo», un’idea abbandonata dopo aver cavalcato un quattrocento versi e constatato, nella sua modestia, che non gli sarebbe stato possibile trovare uno «stile» adeguato, una «misura» in grado di sposare linguaggio comune e movimento fluido del verso. Impossibile trasferire in inglese, comunica a Dennis O’Driscoll che lo intervista, le forme che il «brillante contenitore della terza rima» poteva accogliere. Forse anche Ricciardi, con il piglio che le riconosciamo, avrà inteso marciare virtualmente su quella terra intrisa di torba, in seguito, magari, abbandonando il progetto? Il Poeta incoronato, sottoscrive lei da critico letterario a p. 255, è – come si definisce lui stesso – «‘uno scrittore di versi che ha nella testa e nell’orecchio altre preoccupazioni che non quella della fedeltà al testo’: metro, voce, cadenza, e così via». La musica prima di tutto.
All’Irlandese, intervenuto per aprire il Convegno, Caterina offriva «Botticelli’s Mystical Nativity and the Isle of Capri in W. B. Yeats’s A Vision» sfoderando la sua conoscenza dello Yeats più misterico che sa sedurre il grande cultore della pittura rinascimentale, e non solo di quella (e che, tra parentesi, la appassiona sempre più alle tele dell’epoca. Una sua emozionante lettura al Centro Studi Americani anni fa, del ritratto attribuito a Guido Reni di Beatrice Cenci, è ancora viva).
Si diceva di Sweeney: per il poeta dal nome con quello assonante, Sweeney è anche «figura dell’artista – sradicato, colpevole, che trova lenimento nella propria espressività». Per l’anglo-irlandese, Mad Sweeney era rintracciabile nell’opera di un predecessore dell’Irish Literary Revival, Samuel Ferguson. Per l’americano naturalizzato britannico, Sweeney, molto citato «nella poesia dell’impeccabile T. S. Eliot» è un prototipo che attraversa varie mascherature. Caterina ne ha colto le avventure dagli inizi accademici fino al Sweeney smarrito curato da Marco Sonzogni.
È forse quel personaggio ad aver accompagnato Caterina lungo lo snodarsi del percorso tra il rispetto del rigore accademico-scientifico che sfiora «la commistione di sacralità e verità» (come scrisse recensendo su «Alias» le 775 pagine che fanno La passione della letteratura di Luigi Sampietro) e la libertà, la pazza gioia, la sfida di interpretare il testo come «beautiful thing» (la scoperta del nuovo mondo, firmata William Carlos Williams)? È stata questa, per lei, la serendipity, un happy accident come l’allinearsi delle stelle con gli eventi, la piacevole coincidenza che sconfina col mistico o perfino il senso di qualcosa cui siamo stati destinati? Come per l’Irlanda che Heaney – come tutti gli Irlandesi, per la verità – vede una, europea, tecnologicamente aggiornata e al passo con i tempi, la ricerca che Caterina ha riversato in Novecento poetico americano, come lei scrive della raccolta di Sampietro, «non mostra le rughe del tempo» ma piuttosto «la saggezza dei libri» e, aggiungiamo, la passione, che può anche contrastare con le esigenze della razionalità e dell’obiettività.