È sempre difficile realizzare il ritratto filmico di un artista senza ricorrere all’impostazione documentaristica ma, al contempo, cercando di illustrare la sua carriera senza tralasciare nessun passaggio. Lo è ancor più nel caso di una figura come quella del padovano Michele Sambin, creatore poliedrico che ha attraversato dagli anni ’60 in poi territori espressivi diversi con la capacità di farli dialogare tra loro: cinema, videoarte, pittura, musica, teatro, performance. Così questo film a lui dedicato, Più de la vita, diretto da Raffaella Rivi, non poteva che essere costruito come un diario di viaggio, come un fluido ricordare i passi salienti di un lungo percorso, seguendo in parte un ordine cronologico e in parte un procedimento tematico e associativo.

Più de la vita sta ottenendo riconoscimenti in diversi festival internazionali, anche se è ignorato nel nostro paese, dove nessun contesto cinematografico lo ha presentato. E non sorprende. Il nome di Sambin, che è stato un pioniere alla fine degli anni ’70 della sperimentazione video, costituisce un singolare esempio di rimozione. Pur avendo fatto parte della storica galleria Il Cavallino di Venezia e pur avendo partecipato alle biennali veneziane di teatro e di musica, è colpevolmente sconosciuto al sistema dell’arte, sempre pronto a rivalutazioni postume e a consacrazioni in nome del mercato.

Più de la vita si divide tra nord e sud, tra lo studio-abitazione di Padova e il buen retiro in Salento, dove l’artista ha ristrutturato un ovile. E questi due poli non rappresentano mere location, quanto piuttosto due luoghi dell’anima che, anche per effetto del montaggio, in alcuni momenti appaiono assolutamente contigui. Sono due poli fisici e mentali che tracciano la direttrice su cui si snoda l’attività di Sambin, raccontata attraverso la sua voice over che scandisce una trama di immagini sospesa tra il presente e il passato, rievocato mediante estratti di film, video, installazioni, fotografie, documentazioni filmate. Il confronto tra le due dimensioni temporali, così come l’intreccio e la sovrapposizione tra le varie forme artistiche, fanno di Più de la vita una vera e propria jam-session. Del resto, parlando delle sue sperimentazioni in bilico tra cinema/video, musica e performance, Sambin afferma: «Le immagini in movimento diventano partitura, posso suonare sdoppiandomi con un altro me stesso». Una particolare scrittura creativa questa, che si muove tra la pre-registrazione delle immagini e l’improvvisazione degli interventi live, in modo che le opere di Sambin siano sempre «aperte» (aperte anche al sogno, per citare il titolo di un suo progetto). Negli ultimi anni Sambin ha infatti ripreso alcune azioni e lavori di decenni fa, aggiornandoli, dando loro una continuazione, creando una sorta di sequel, come nel caso del super 8 Diogene, della videoinstallazione Looking for Listening o della suggestiva performance musicale San Sebastiano, una sorta di scultura sonora da suonare costituita da un cello trafitto di frecce colorate; un’opera che, di volta in volta, si arricchisce di nuovi elementi e produce nuove sensazioni.
Accanto al protagonista, compare molto presto anche Pierangela Allegro, compagna di vita e di lavoro, presenza fondamentale nell’immaginario artistico di Sambin, tanto da condividere la voce di commento. Con lei l’artista ha condiviso la preziosa esperienza del TAM Teatromusica: «Un teatro sospeso tra immagine e suono, che non descrive stati d’animo ma li provoca, un teatro che prende dalla realtà e la trasforma, la frantuma per ricomporlo in un montaggio di forme che aprono l’immaginazione e ogni singolo spettatore diventa autore della propria visione». TAM ha operato anche all’interno delle carceri, lavorando con i detenuti e inaugurando un’altra fase creativa altamente significativa, anche per i suoi risvolti sociali.

Vi sono alcuni momenti di Più de la vita dove Sambin e Allegro dialogano davanti alla macchina da presa; il primo di questi è quando l’artista spiega accuratamente, attraverso un modellino, come funzionava il videoloop, sistema da lui messo a punto (con due videorecorder collegati tra loro, due monitor e una videocamera) per la realizzazione di alcuni videotape quali Io sono Michele, Il tempo consuma o Anche le mani invecchiano. Il dispositivo qui non si limita a registrare un’immagine, ma è il produttore di una loro moltiplicazione e cancellazione, di un processo di trasformazione idealmente senza fine. «Questo lavoro – dichiara Sambin sottolineandone l’importanza nel contesto della sua opera – ha determinato il mio modo di pensare l’arte e la vita».

Altre due presenze appaiono centrali per Sambin; la prima è quella di suo padre (che appare sullo schermo del computer a inizio film), studioso di un famoso uomo di teatro del ’500, il Ruzante, che tra l’altro viveva poco distante dall’abitazione dell’artista; la seconda è, appunto, proprio Ruzante, da sempre modello di riferimento per Sambin, il quale ha da lui desunto e adottato il concetto di «slargare la vita». Ed è inevitabile che Sambin, a metà di Più de la vita, reciti Ruzante in padovano, regalandoci un momento di grande recitazione. E sulla lezione ruzantiana, Sambin ha costruito tutta la sua estetica artistico-esistenziale, allargando la vita, espandendo i confini del fare artistico. Tale versatilità, tale necessità di far dialogare tra loro le diverse esperienze espressive, è il punto di forza ma forse anche il suo tallone d’Achille, poiché quando l’artista sfugge alle definizioni e alle categorie suscita grande diffidenza nel mondo dell’arte. «Trovare un equilibro tra la ricerca dentro di sé e la comunicazione con l’esterno è faticoso», dice in un’altra sequenza del film Sambin, evocando un’altra figura, quella di Andreij Rublev che – attraverso la mediazione di Tarkovskij – ha ispirato nel 1999 Sogno di Andreij, spettacolo in cui si fondono pittura dal vivo e performance teatrale. Più de la vita – che sarebbe davvero riduttivo chiamare documentario o film di documentazione o portrait – è in qualche modo un vero e proprio film d’artista. Non solo perché Sambin ha contribuito notevolmente alla sua gestazione – produttivamente lunga e travagliata – ma poiché contiene reenactment che rendono vive e vitali le performance del passato, creando una continuità anche narrativa con quei lavori. Ciò che vediamo messo in scena, attraverso delle sequenze di grande eleganza e bellezza (un plauso alla fotografia di Giovanni Andeotta), è, in definitiva, un dialogo visuale tra la regista e l’artista. Un dialogo basato su momenti di caos e sequenze di calma e meditazione, in cui l’aspetto processuale di Sambin, filmato mentre lavora ad esempio alle composizioni pittoriche, funziona da contrappunto rispetto al magma visivo-sonoro di questa schizofrenica estetica crossmediale.