Uscito all’inizio degli anni ottanta, il film Il grande freddo di Lawrence Kasdan metteva al centro della sua narrazione la generazione che aveva partecipato in gioventù al fermento sociale e politico della fine degli anni sessanta e che con la maturità si era trovata a vivere una nuova ondata di materialismo. Il fenomeno dello yuppismo invertiva le energie della contestazione e dell’età hippie in una spinta consumistica, e il film disegnava un gruppo di baby boomers che, rincontrandosi in occasione del funerale di uno di loro, cercava di far rivivere l’innocenza perduta con il passare del tempo. La colonna sonora spaziava da Marvin Gaye, ai Procol Harum, ai Creedence Clearwater Revival, amplificando l’effetto nostalgia.

Nella parabola esemplare tracciata dal film potrebbe essere inscritta la vicenda raccontata oggi dal libro Revolution di Linda Scott e Alan Bradshaw (Luiss University Press, traduzione di Mariachiara Eredia, prefazione di Ferdinando Fasce, pp. XII-122, € 15,00) e la traiettoria enunciata dal sottotitolo – Storia di una canzone dei Beatles dalla protesta alla pubblicità – riflette uno dei possibili sensi che la pellicola di Kasdan cercava di afferrare. Grazie al suo potere evocativo, infatti, la musica degli anni sessanta da un lato risvegliava i significati ribellistici e solidali, dall’altro sembrava via via spogliarsene per rimanere il nudo significante di un processo commerciale pronto a essere piegato a qualsiasi scopo.

Studiosi di marketing, pubblicità e cultura economica a Oxford e alla Royal Holloway University di Londra, Scott e Bradshaw hanno seguito in questo studio la «vita» di una delle canzoni – se non più belle, più controverse – dei Beatles, mostrando come i percorsi della sua ricezione e del suo utilizzo siano più complessi della semplice corruzione dalla genuinità originaria del messaggio allo sfruttamento commerciale.

Revolution, infatti, è un brano dalla gestazione complessa: scritto da Lennon in risposta ai moti studenteschi del maggio ’68, rappresentava un punto di svolta tanto per i quattro di Liverpool quanto per la musica pop in generale. Si poneva come il punto d’incontro del pop tradizionale, e del suo gruppo di maggior spicco, con la sfera politica, esempio della volontà di trasformare un’arte effimera per eccellenza in qualcosa di più elevato, che avesse un’opinione sul mondo e sulla contemporaneità.

Di Revolution esistono tre versioni: la prima, dall’andamento hard rock, apparsa come lato B del singolo Hey Jude, la seconda e la terza contenute nel White Album, una in stile blues lento e l’altra dall’aspetto di esperimento di musica concreta.

L’impossibilità di stabilire una parabola netta nella ricezione e nell’impiego di questa canzone deriva dalla sua ambiguità di fondo: nel testo del singolo, Lennon sembra rifiutare il concetto radicale di rivoluzione, specie se si pensa ai versi «but when you talk about destruction / don’t you know that you can count me out»; rifiuto che pare suffragato dal riferimento in negativo al presidente Mao nell’ultima strofa della canzone (but if you go carrying pictures of Chairman Mao / you ain’t gonna make it with anyone anyhow).

Accusata di essere un inno reazionario, questa versione molto probabilmente rifletteva soltanto lo spirito pacifista di Lennon, per cui la rivoluzione vera e propria doveva essere piuttosto una liberazione della mente. Ma le cose si fanno più complicate con le versioni del White Album: in quella più lenta, lo stesso verso citato sopra, che rifiuta la violenza politica (don’t you know that you can count me out), ha una riformulazione meno univoca: dopo out Lennon dice anche in, come a lasciare aperta la porta a un’interpretazione divergente. La versione sperimentale, chiamata Revolution 9, è invece un collage di suoni che potrebbe rappresentare tanto una condanna quanto un’esaltazione del caos rivoluzionario.

Nel contesto di questa dispersione di significati, non è difficile immaginare come la canzone sia potuta diventare il manifesto di posizioni anche contrastanti. E l’effetto di equivocità si è amplificato ancora di più quando, nel 1987, una giovanissima copywriter della Wieden + Kennedy, Janet Champ, ha proposto di utilizzare la canzone dei Beatles per lo spot televisivo di uno dei più importanti clienti dell’agenzia, la Nike.

Erano gli anni in cui Jane Fonda, la Hanoi Jane dei primi anni settanta, era passata a pubblicizzare con successo video e palestre di aerobica, e il mito di Lennon (ucciso a New York nel 1980) poteva essere ormai piegato al rilancio del marchio americano di scarpe sportive che stava perdendo quote di mercato a favore dell’inglese Reebok. Il risultato fu un commercial televisivo in tre versioni (due sfruttavano la Revolution hard rock e una quella blues lenta), la più celebre delle quali mostrava atleti famosi e persone comuni fare scherzi e buffonate mentre praticavano sport, il tutto ripreso in bianco e nero con una telecamera a mano, e con un montaggio debitore dell’estetica dei videoclip. Lo spot, che esprimeva una filosofia della quotidianità basata su emancipazione e superamento dei limiti individuali, centrò immediatamente l’obiettivo facendo aumentare gli ordini della Nike e garantendo successo e incrementi di budget per l’agenzia Wieden + Kennedy.

Ma più interessanti dal punto di vista della storia culturale sono le reazioni che la pubblicità ricevette: l’impiego di Revolution (anche se inizialmente autorizzato da Yoko Ono e dai Beatles ancora in vita) attirò la netta disapprovazione di moltissimi fan, che lo videro come la resa dell’idealismo rock all’avidità del commercio; più ancora, la Nike venne accusata di essersi appropriata non semplicemente di un brano, ma dei ricordi di una generazione che aveva sperato di rovesciare gerarchie e valori dominanti.

«La gente è stufa del modo in cui gli spot televisivi stanno colonizzando il passato più recente» scriveva, ad esempio, Jon Wiener, professore di storia all’Università della California di Irvine. Un effetto abbastanza curioso, questo, se si pensa che la canzone, per lo meno nella sua originaria versione di lato B di Hey Jude, priva dell’ambiguità count me out/in, era stata ai suoi tempi etichettata come «meschino grido di paura borghese»: ora, invece, sembrava che lo spot avesse avuto il potere di tramutarla, anche al di là delle reali intenzioni, in un inno del radicalismo di sinistra. Ed è forse anche a partire da queste accuse che finirà per delinearsi a mano a mano, nel pubblico dei consumatori, l’immagine della Nike come di un colosso senz’anima, un vuoto significante-padrone – per dirla con le parole di Slavoj Žižek – che veicola uno stile di vita più che un prodotto, e che non si pone lo scrupolo di sorvegliare i processi produttivi che sfruttano manodopera a basso costo né i messaggi che esprime attraverso i propri slogan (si pensi alle accuse di immoralismo per il motto just do it).

Lo sposalizio tra musica dei Beatles e marketing sembra dunque, nonostante un idillio iniziale, un matrimonio fallito e infatti lo spot Nike sarebbe stato destinato a rimanere un unicum (dopo una causa controversa contro la Nike, Harrison, McCartney e Starr non avrebbero concesso altre autorizzazioni allo sfruttamento commerciale dei loro brani).

Ma nella storia degli usi (e abusi) di Revolution ci sarebbero stati altri capitoli, persino più surreali: nel febbraio 2016, dopo la vittoria alle decisive primarie del New Hampshire, Donald Trump si fece acclamare dalla folla sulle note della canzone di Lennon, facendole così compiere un’altra giravolta ideologica spericolata. Un destino non diverso da quello di Born in the USA di Bruce Springsteen, che fu voluta per la campagna presidenziale di Ronald Reagan, con grande stupore del cantante.

«Non di rado i dischi sono come il test di Rorschach» dichiarò Springsteen, «sentiamo quello che vogliamo sentire». Una considerazione valida più che mai anche per Revolution e che, al di là delle analisi musicali ed economiche di Linda Scott e Alan Bradshaw – e forse anche al di là dei loro intenti –, ci proietta verso un territorio più filosofico, ricordandoci la natura disseminativa di ogni «testo», l’imprevedibilità con cui i prodotti culturali sfuggono al controllo di chi li ha creati e la loro capacità, quasi strutturale, di sottrarsi all’arrivo presso un orizzonte predeterminato di destinazione.