Walter White, l’insegnante di chimica di scuola superiore protagonista di «Breaking Bad», trova una soluzione alla necessità di pagarsi i conti per curare il cancro al polmone che lo ha colpito a cinquant’anni: sfrutta le sue conoscenze chimiche per sintetizzare metanfetamina purissima. I nuovi guadagni possono garantire un futuro alla figlia e alla moglie, dopo la sua morte. La chiave dell’intreccio di questa serie di successo si spiega anche con il fatto che la maggior parte del ceto medio, lavoratori dipendenti o autonomi, del mondo occidentale si è identificato nella situazione del cittadino indebitato e del lavoratore povero. Allargando il campo, questa è la situazione in cui si trova oggi molti di coloro che svolgono un’attività nell’economia collaborativa e della condivisione (sharing economy).

In mancanza di un reddito dignitoso dalle attività lavorative «normali», i nuovi poveri possono affittare i loro beni – una stanza con Airbnb, la macchina per fare i tassisti con Uber, vendere i libri dei genitori su Amazon – o condividere le eccedenze alimentari della grande distribuzione su piattaforme «food share» come Leftoverswap. È l’immagine del futuro nella società della stagnazione secolare e dei bassi redditi: da una parte la società dell’1%, dall’altra parte una popolazione che vive con reddito da 5 o 10 mila euro annui (lordi) o sopravvive con i voucher o il lavoro nero. In questa nuova distopia il lavoro retribuito non sembra avere cittadinanza, se non come attività anonima, meramente accessoria, senza valore, al limite gratuito. Questo scenario vale ancor di più per quello intellettuale, come l’editoria, la ricerca o il giornalismo. Settori dove si sperimenta con violenza la gratuità del lavoro e la spersonalizzazione. È il «crowdwork»: il lavoro-folla. Il lavoro è indistinto, come il suo soggetto, ha sostenuto il sociologo britannico Guy Standing.

La Fondazione per gli studi progressisti europei (Feps) sta conducendo con l’università inglese dello Hertfordshire e i sindacati europei Unieuropa un’indagine sul lavoro digitale in Europa. I dati sono impressionanti e ad aprile conosceremo anche quelli che riguardano l’Italia. In Gran Bretagna esistono 5 milioni di persone pagate più o meno regolarmente dalle piattaforme della sharing economy. Tre milioni svolgono le loro attività solo con queste tecnologie in rete. Più di un quarto di queste persone sostiene di guadagnare metà del proprio reddito annuale attraverso gli scambi o le attività professionali online. Il 42% del campione considera le piattaforme come una necessità quotidiana. Parliamo di tassisti, muratori, designers, commercialisti. E poi di studenti, apprendisti, freelance, disoccupati o sotto-occupati. La tecnologia non ha solo modificato alla radice le modalità di lavoro, colonizzando la vita 24 ore su 24 e il sonno. Ha creato qualcosa che, al di là delle parafrasi che di solito si usano nella pubblicistica fiorente e specialistica, è chiamato «capitalismo di piattaforma».

Un progetto reale di divisione del lavoro digitale e salariato, mentre la vita si adatta plasticamente al ritmo, allo stile «social» e ai nuovi criteri di produttività. L’emersione prorompente di questa realtà – esemplificata dalle prassi diffuse su facebook – ha provocato in tutto il mondo una spinta verso la ricerca di un altro modo di vita. Dentro e contro la nuova economia, per parafrasare un motto post-operaista.

Uno dei riferimenti di questo dibattito è Trebor Scholz, che interverrà a Bellissima Fiera domenica 20 marzo alle 11 in una discussione con Tiziana Terranova. Sholz ha proposto la definizione di «cooperazione di piattaforma» (Platform cooperativism). È l’evocazione di una coalizione tra «designer, lavoratori, artisti, cooperative, sviluppatori, nuovi sindacati, avvocati del lavoro – scrive – che possono cambiare la struttura dall’interno e permettere a tutti di godere dei frutti del loro lavoro». Alcuni esempi: Fairmondo, l’altra Amazon in Germania: duemila soci uniti nella ricerca di un’alternativa cooperativa all’e-commerce. Member’s Media, Stocksy o Resonate, cooperative dell’immateriale che possiedono le piattaforme sulle quali lavorano. Questa onda riprende il mutualismo storico: la cooperazione e la trasmissione dei saperi, la formazione di un’intelligenza collettiva, competenze e inventività, oltre alla difesa del reddito e la sua creazione. Le nuove esperienze di auto-organizzazione sindacale, come la Freelancers Union o le battaglie per l’aumento del salario minimo (FightFor15) negli Usa nascono da questa sensibilità globale che prende forma anche in Italia in esperienze come quella della coalizione 27 febbraio, una prima rete di freelance, liberi professionisti e partite Iva che ha elaborato una carta dei diritti del lavoro indipendente (presentazione sabato alle 11).