Nella cultura pop, il Giappone occupa da anni un posto di rilievo grazie alla sua industria culturale. Nel bene e nel male, detta stili e visioni soprattutto in campi oggi universalmente noti come quelli dell’animazione, del fumetto e dei videogiochi. Inoltre, al di là di questa sorta di triade, si possono trovare altri esempi che meritano attenzione critica, visti i legami con gli ambiti «maggiori» citati. Fra questi c’è, senza dubbio, la visual novel. È un genere se vogliamo ibrido, quindi in continua ridefinizione, anche se sostanzialmente considerato nella categoria games. Come esperienza la si potrebbe definire vicina all’idea di fruizione di un testo elettronico ma attraverso un apparato di simulazioni grafiche e di segni figurativi e sonori. Per chi volesse approfondire l’argomento, studi dettagliati non sembrano mancare sul fronte accademico (fra gli italiani, Luca Paolo Bruno ha senz’altro scritto cose interessanti). Di seguito, si propone invece un micro-percorso che mette in relazione tra loro alcune opere di questi ultimi anni. Lo scopo è quello di evidenziare tre motivi – fra i tanti – che possano in qualche modo suggerire come la visual novel presenti un connubio di sperimentazione e narrazione che le arti tradizionali del racconto di oggi, in linea di massima, non tendono più a ricercare.

Una caratteristica comune nelle visual novels è la narrazione non lineare, resa grazie alla possibilità di far scegliere a chi legge/fruisce in che modo far andare avanti le storie, optando per una scelta invece di un’altra. Ci sono però riscritture e riscritture. In merito, si può considerare Fate, uno dei «franchise» più di successo nell’ambito «media mix», cioè nella combinazione di diversi canali comunicativi attraverso cui le storie vengono rappresentate (videogiochi, animazione, manga e altro). All’origine c’è proprio una visual novel, Fate/Stay Night, sviluppata dalla Type Moon nel 2004 e rilasciata per il sistema operativo Windows come gioco per adulti. Come sanno gli appassionati e le appassionate della «saga», la narrazione presenta tre possibili percorsi (in gergo, routes), che si intraprendono con determinate scelte durante la lettura.
Interessante è notare come è presentata la caratterizzazione dei personaggi. Per ogni percorso sono sempre gli stessi ma, sempre, potenzialmente diversi, se si compie lo sforzo di «leggerli» dentro l’opera nel suo complesso. Qui, il personaggio di Sakura è forse il caso più estremo, incarnando una ambivalenza in cui bene e male convivono. Chiaro: è un personaggio perfettamente integrato nell’universo di Fate. Tuttavia, se lo si estrae dal contesto, nella sua complessità si mostra un personaggio dialettico, tipico di narrazioni avanguardistiche.

Nell’ambito mediale, le visual novels sarebbero da considerare l’esempio più calzante di opera d’arte totale: almeno in potenza, e secondo l’accezione più elementare che in genere si dà alla formula di Wagner. Hanno tutto: testo, recitazione, animazione, musica. Ma ovviamente, come per il discorso sulla riscrittura, alcune risplendono più di altre. È il caso per esempio di Steins;Gate (Nitroplus, 2009), considerata – a ragione – un capolavoro (la versione anime, molto nota anch’essa, è del 2011).

Fra i tanti pregi della visual novel in questione c’è soprattutto la capacità di rendere la lettura/fruizione del gioco come una esperienza completa, in un certo senso «immersiva». Qui, val la pena citare l’uso del cellulare di chi «gioca» (il ruolo è quello di Okabe Rintarou). Oltre ad essere una funzione fondamentale per l’interazione dell’utente, permette di ricevere sms dagli altri personaggi, permettendo quindi di arricchire la narrazione in modi inusuali. Inoltre, in senso generale, raddoppia lo spazio visivo sullo schermo destinato alla parte testuale. In fondo, qualcosa di non dissimile da certe sperimentazioni letterarie tra scrittura e grafica.

Infine, si può considerare l’aspetto metatestuale che le visual novels sono in grado di far emergere. In questo senso, l’esempio più lampante è l’incredibile e geniale Doki Doki Literature Club! (Team Salvato, 2017), un racconto che fa dei corto-circuiti e della autonegazione/sovversione/deriva le sue caratteristiche principali. Qui, l’utente si trova alle prese con un club di letteratura di ragazze. L’interazione arriverà a toccare tanto la sua simulazione sullo schermo quanto la sua stessa presenza, in un senso decisamente anticonvenzionale e radicale: sia per l’immaginario di riferimento, sia per i modi implicati.
Con Doki Doki Literature Club! la formula «non essere quello che sembra» acquista una accezione, se vogliamo, materiale. Un tratto proprio della narrazione d’avanguardia di ieri; un’intuizione per una sua ripresa e prosecuzione con altri mezzi come avanguardia di oggi.