«Ti basta l’Atlantico?» chiede Lytton Strachey a Virginia Woolf, che gli ha mandato dalla Cornovaglia una lettera in cui si paragona a «una specie di beghina», costretta, per scrivere, a sollevare la tovaglia del tavolo nella sala da pranzo, non prima di averne rimosso i molti vasetti d’argento. Virginia si trova nell’alloggio così così di St. Ives, la cui padrona di casa ha nove bambini (una volta ne aveva undici), il più piccolo dei quali «è capace di piangere per tutto il giorno». Perciò, riferisce, «trascorro la maggior parte del mio tempo sola col mio Dio, nella brughiera». Quel giorno, dice, ha passato un’ora su una roccia «a cercare di capire come descrivere il colore dell’Atlantico. Ha strani brividi di verde e viola, ma a chiamarli rossori si introdurrebbe una sgradevole associazione con la carne fresca». Ma, aggiunge, «temo tu non abbia grande sensibilità per la natura». Lytton, in effetti, si interessa ad altro: il pomeriggio l’ha passato con «un giovane studente universitario, Rupert Brook (che nome romantico, no? brook=ruscello), dalle guance rosee e i capelli biondissimi. Lo so, ti parrà orrendo, e invece no… potevo contemplare i capelli biondi e le guance rosa di Rupert ogni volta che iniziavo ad annoiarmi». Inoltre, ha riletto Racine: «Non è mai esistito un artista piú grande. E scrive dell’unica cosa di cui, secondo me, vale la pena scrivere: il cuore degli uomini!»

Geniali cattiverie
È il primo scambio tra Virginia Woolf e Lytton Strachey, tratto dalla edizione integrale del carteggio, che restaura e integra con perizia filologica quello pubblicato in forma espurgata nel 1956 dal marito di Virgina, Leonard, e dal fratello di Lytton, James: Ti basta l’Atlantico? Lettere 1906-1931 (a cura di Chiara Valerio e Alessandro Giammei, nottetempo, pp. 270, €17,00). Meritoria impresa. Perché privarci di certe «geniali cattiverie», o di qualche «spietata stroncatura», o dei «pochissimi ma spiazzanti eccessi di volgarità» – scrive a ragione Giammei – solo perché sessantacinque anni fa potevano offendere qualcuno?

Il primo scambio anticipa molto di ciò che segue. I due giovani maestri della prosa inglese (romanzo l’una, saggio biografico l’altro) si adorano, ma hanno gusti diversi. Per Lytton (che l’amica immagina come «una specie di principe veneziano, in calzamaglia azzurra») non c’è «niente al mondo» che regga il confronto con la «squisita seta di Racine». Rileggendo Athalie, scrive, «mi sono quasi sentito come fossi un francese … c’è voluto un certo sforzo per ricordarmi del Re Lear, e a dire il vero non sono ancora del tutto certo che…», e si tace. Quel che non dice è che l’autore del secondo testo non regge il confronto con quello del primo – opinione comune, peraltro, nell’Europa preromantica, sdoganata una ventina d’anni dopo da T.S. Eliot.

Da Tarragona, invece, dov’è in luna di miele con Leonard en route per Madrid e Venezia, Virginia prima si lamenta («il w.c. di fronte alla nostra stanza non è stato svuotato per 3 giorni»), e poi scrive: «sono andata completamente in tilt con Delitto e castigo, cinquanta pagine prima del tè, e visto che sono solo 800, lo attraverserò in pochissimo tempo. È assolutamente ovvio che sia il più grande scrittore mai nato».

Gusti diversi, appunto. Qui, però, la traduzione della prima frase è quantomeno dubbia. Virginia scrive: «I have now run full tilt into Crime et Châtiment», il che non vuol dire che è «andata in tilt» (tilt=meccanismo che blocca il flipper), ma che procede con impeto a gran velocità, a passo di carica (tilt=torneo cavalleresco). Ed è interessante che legga Crime et Châtiment e non Crime and Punishment (cioè Delitto e castigo). Tre mesi dopo Lytton scrive: «Tra le altre cose sto leggendo Un Adolescent, di Dostoevskij – più frenetico di ogni altro, mi sembra». Insomma, pare che leggano edizioni francesi.

Questione di gusti
Tra le stroncature è celebre quella riservata a Joyce, del quale nel 1918 venne proposto a Virginia e Leonard per la Hogarth Press l’Ulisse, quattro anni prima che uscisse, dunque. Riferendone a Lytton, Virginia scrive: «prima c’è un cane che piscia, poi un uomo che si masturba, e si può essere monotoni pure su questo argomento». Quanto al nuovo «modo di scrivere», si riduce a «eliminare le spiegazioni e chiudere i pensieri tra trattini interpuntivi. Non credo dunque che lo faremo». Quattro anni dopo, la cosa si fa più greve. Su iniziativa di Ezra Pound, il poeta imagista Richard Aldington organizza un fundraising per sgravare «il grande Tom Eliot» dal lavoro in banca: Lytton promette 100 sterline, Virginia ne offre 5 e 6 pence, ma «a condizione che faccia delle prime 200 pagine dell’Ulisse l’uso che si meritano. Non ho mai letto tante fesserie».

Meno noti i giudizi su Henry James, che Lytton incrocia nel 1909: sembra – scrive – «un ammirevole commerciante che fa del suo meglio per soddisfarti, infinitamente autorevole ed educato», ma i romanzi sono «straordinariamente privi di levità». E chiede: «C’è qualche verità in simili impressioni?» Sei anni dopo è lui a domandare a Virginia se per piacere può dirgli quali meriti ci trovi: «leggo, e non ci vedo altro che acqua di rose blandamente colorata, mondana e setosa ma grossolana». Invece «ho appena iniziato Umiliati e offesi e mi sta travolgendo. Lo hai letto?» Se la prosa del russo era superiore alla squisita seta del francese, figuriamoci quanto potesse reggere la stoffa grossolana del commerciante yankee

I due eccezionali amici galleggiano in un’aurea bolla popolata di altri amici speciali per i quali non conviene usare aggettivi più altisonanti, visto il monito di Strachey – «”genialità” (che brutta parola!)». «Parlano di aristocrazia» scrive Valerio, ma «si capisce che ci sono gli aristocratici, sì, ma c’è la razza sacra, gli scrittori, i poeti … geometricamente più in alto della razza umana».

Naturalmente, oltre a scambiarsi opinioni sui libri altrui presto parleranno dei propri. Letto il primo romanzo di Virginia – La crociera – del 1915, Lytton scrive: «non credo di aver mai goduto altrettanto della lettura di un libro». E aggiunge: ha «una meravigliosa solidità, qualcosa di tolstojano». L’uscita, sette anni dopo, di La stanza di Jacob lo fa «quasi gridare di gioia»: «la tecnica narrativa è stupefacente… lo profetizzo immortale».

Nel 1917, leggendo l’ultimo capitolo di Eminenti vittoriani (quello sul generale Gordon, il governatore del Sudan decapitato nel 1885 nella battaglia col Mahdi) Virginia trova, in questo che chiama «capolavoro» e che le sembra «il più fulgido esempio dello stile del maestro nella sua maturità», il vertice della prosa di Strachey.
È «sbalorditivo», scrive, come dai garbugli della vicenda «tu riesca a mettere in fila una storia tanto semplice e vivace, e come intessi ogni possibile ritaglio (Dio mio, che ritagli!) di interesse quasi fossi (perdona la metafora) un serpente che striscia attraverso innumerevoli anelli d’oro … Non vedo come quest’abilità possa essere portata più avanti di così».

Nel carteggio il mondo esterno entra di rado. Nel 1908 Virginia registra «una foschia bruna attraverso la quale si vedeva tutto: i poveri, la carne e gli sbuffi di gas». Questa clausura può soffocare. Otto anni dopo Lytton scrive che si trova da mesi in un «mortale stato di letargia» e immagina che «debbano essere così le Malebolge». Ora, però, gli pare di emergerne: «Forse gli orrori del mondo esterno (tribunali locali e roba simile) cominciano a farsi più presenti, e non si può davvero starsene immobili di fronte ad essi».

Certo, che gli orrori esterni possano fugare quelli interni è noto, ma colpisce il fatto che nel 1916, per sperimentarlo, Strachey abbia bisogno di «tribunali locali e roba simile». Dopo tutto è l’anno della battaglia della Somme, e il biondo Rupert dalle guance di rosa, dopo essere diventato grazie ai suoi sonetti di guerra il Poeta Patriota nazionale, è morto l’anno prima. Perché Strachey pensi alle Malebolge come correlativo oggettivo del suo stato interiore non lo dice. Nell’Inferno, comunque, il girone evocato ha la forma di un castello la cui cerchia di mura è difesa da dieci valli – una fortezza impenetrabile.