Si dice che madame du Dubarry, al culmine della sua gloria di maîtresse en titre di Luigi XV, un giorno, fiera della superba carrozza con la quale fendeva in pompa magna la folla ammirata, abbia esclamato: «Mon Dieu, que ze voudrais me voir passer!» (Mio Dio, come vorrei vedermi passare!). È, probabilmente, una malignità messa in circolazione dai nemici della contessa, le cui origini plebee, satireggiate anche nella parlata che le si attribuisce («ze» invece di «je»), erano deprecate tanto quanto i suoi trascorsi assai poco edificanti: né gli uni né le altre avevano però impedito alla sua straordinaria bellezza (nonché, aggiungevano i soliti maligni, alle sue leggendarie prestazioni erotiche) di sedurre completamente il vecchio sovrano, con grande scandalo dei benpensanti e della giovanissima Maria Antonietta (moglie del futuro Luigi XVI).

Inventata o autentica che sia, la battuta coglie felicemente l’entità del narcisismo, componente essenziale del divismo, femminile o maschile che sia. Tutte le grandi seduttrici e tutti i grandi seduttori vorrebbero potersi vedere in azione e, in mancanza di questo, immortalati in immagini (basti pensare al diluvio di faccione e di capoccioni mussoliniani che inondò in lungo e in largo il Belpaese).

Il matrimonio nel 1854

Centinaia di immagini fotografiche (più di 400) sono probabilmente il lascito migliore di quella seduttrice italiana, famosa anche per aver messo il suo fascino al servizio della causa risorgimentale, che fu Virginia Oldoini diversamente da madame du Dubarry proveniente da una famiglia spezzina di antico lignaggio (era figlia del marchese Filippo, diplomatico) e sposò nel 1854 a 17 anni Francesco Verasis, conte di Castiglione, di un casato piemontese altrettanto illustre e assai più facoltoso.

La contessa di Castiglione, come è stato in lungo e in largo raccontato da una quantità di libri più o meno storicamente attendibili (nonché da due film e da uno sceneggiato televisivo), fu anche reclutata da Cavour, suo lontano parente e già tutore del marito, per sedurre Napoleone III, in modo da indurlo a un atteggiamento favorevole all’unità d’Italia: difficile pensare che l’imperatore si sia alleato con il Piemonte nella II guerra d’indipendenza solo perché persuaso dalla grazie della bellissima Virginia, o che lei si sia infilata nel suo letto soltanto per patriottismo, ma non c’è dubbio che la contessa seppe far breccia nel cuore del sovrano. Giunta giovanissima alla corte di Torino, dopo la nascita del figlio Giorgio la ragazza si era rapidamente stancata del marito e aveva presto trovato amanti vari, tra i quali lo stesso Vittorio Emanuele II.

Arrivata a Parigi insieme al conte, che da principio ignorava o fingeva di ignorare i tradimenti della moglie, Virginia abbagliò con la sua bellezza e scandalizzò con il suo comportamento non solo la corte imperiale francese, ma mezza Europa, prima del lungo declino che la vide invecchiare e morire a Parigi sola (il marito, da cui si era separata, era defunto nel 1867 e il figlio, con cui aveva litigato, se l’era portato via il vaiolo nel 1879), abbandonata da molti sedicenti amici e in miseria. A La contessa Virginia Verasis di Castiglione (Adelphi, 452 pp. € 24,00) ha dedicato un corposo volume Benedetta Craveri, francesista nota anche per i suoi studi su altre donne protagoniste della vita politica e culturale dei secoli XVII e XVIII.

Tutta la documentazione oggi accessibile è stata scovata indagando in numerosi archivi: una lettura agevole, che a volte indice tuttavia a chiedersi se valesse la pena spendere tanta erudizione per un personaggio definito dalla stessa biografa una «prefigurazione delle celebrità da rotocalco»: egoista e calcolatrice, la contessa, sempre a caccia di quattrini, utilizzava sistematicamente le sue relazioni con politici e banchieri per speculazioni finanziarie (non sempre fortunate).

Annotando come «per lei i rapporti sessuali» fossero irrilevanti, la stessa Craveri finisce per chiedersi se questa grande seduttrice abbia davvero mai amato qualcuno; con discrezione viene avanzata una possibile interpretazione femminista, ma si sottolinea anche l’essere soprattutto un’attrice della contessa, prigioniera di una narcisismo che la induceva sempre a recitare una parte.

Forse incapace di amare, Virginia Verasis era però capace di farsi amare, anche da vecchia e addirittura da defunta, come attesta un suo singolare adoratore, Robert de Montesquiou, la cui figura di letterato, dandy e arbiter elegantiarum della Parigi fin de siècle, sembra abbia ispirato il Des Esseintes di Huysmans e il Charlus di Proust (che fu suo amico e che lo proclamò «professore di bellezza»). Montesquiou le dedicò La divina contessa, pubblicato a Parigi nel 1913 (con una prefazione, scritta in francese, di D’Annunzio) di cui esce ora una traduzione, di Maurizio Ferrara (Passigli, pp. 292, € 22,50).

A place Vendôme

Nato nel momento di massimo splendore della Castiglione, lo scrittore non ebbe la possibilità di conoscerla personalmente, come di certo avrebbe voluto, attratto dalle leggende che circolavano sulla bellezza di quella vecchia signora che viveva reclusa in un piccolo appartamento di place Vendôme finché non venne cacciata in un alloggio più misero di una strada vicina; Montesquiou la vide da morta, nel giorno del funerale (che la contessa aveva programmato fin nei minimi particolari), descritto in una delle pagine più intense del suo libro.

Famoso e raffinato collezionista, aveva anche raccolto con pazienza e con costanza da segugio tutte le testimonianze possibili sulla contessa, tra cui appunto le oltre quattrocento fotografie che Virginia si era fatta fare, lungo un rapporto di amicizia quarantennale, dal famoso fotografo Pierre-Louis Pierson, in realtà autore delle immagini solo a metà, perché era stata la donna a imporre i costumi e gli atteggiamenti, spesso anticonformisti, con cui posava.

Celebre la foto (intitolata Scherzo di follia) con cui la divina contessa nasconde il volto dietro una cornice ovale che lascia vedere soltanto l’occhio destro; le altre immagini (riscoperte vent’anni fa in una grande mostra che ha fatto tappa a Parigi, New York e Torino) sono spesso tableaux vivants, ritratti in costume, che mimano situazione immaginarie: oltre che con la tonaca dell’eremita o con fastosi abiti da ballo, Virginia si fece anche ritrarre, audacemente per quei tempi, solo le gambe (dal ginocchio in giù) e i piedi nudi.

Se il testo di Benedetta Craveri assicura rigore storico, quello di Montesquiou ha soprattutto un notevole spessore letterario: sebbene si proponga di ristabilire la verità smentendo le calunnie che circolavano sul conto della Castiglione ed edificando, di contro alla leggenda nera della spudorata avventuriera, la tragica storia di una bellezza divina travolta, oltre e più che dalla volgarità del mondo, dalla ineluttabilità del tempo irreparabile, gli intenti apologetici si traducono spesso in una prosa lussureggiante (non a caso si è detto che, nei momenti migliori, lo stile di Montesquiou ricorda l’articolata complessità del periodare proustiano). Non meno narcisista della sua eroina, lo scrittore si riconosce in lei, dilungandosi nella lunghe, lievemente deliranti descrizioni degli abiti che la contessa indossa nelle fotografie di Pierson, descrizioni altrettanto emblematiche, anche se meno celebri, delle immagini che le hanno ispirate.