Non è certo facile pubblicare un «tutto Virgilio», e non solo per le mille difficoltà dell’impresa in sé, fosse anche soltanto star dietro all’enorme bibliografia critica. Il motivo è anche un altro: Virgilio è autore così familiare, tanto nette si stagliano nella mente di ogni lettore immagini e suggestioni della sua opera, che appunto un’impresa di questa natura deve farsi largo tra inevitabili domande o perplessità – che mai ci sarà di nuovo su Enea, Didone, su Titiro e Melibeo, su Orfeo e Euridice?
Credo che Guido Paduano, curatore per la Collana «Classici della letteratura europea» Bompiani dell’intero corpus virgiliano – compresa la sezione pseudoepigrafa, la cosiddetta Appendix – (Tutte le opere, pp. XLIII-1199, euro 48,00), se ne sia ben reso conto. Ed è forse per questa ragione che il suo rapido quanto illuminante saggio introduttivo parte da un verso che certo non è tra i più noti di Virgilio. Si tratta, per l’esattezza, di un verso monco – uno tra i vari disseminati nell’Eneide, tradizionalmente detti tibicines, ovvero «puntelli» – cioè 4, 361 Italiam non sponte sequor: Enea, presentato al lettore nel proemio come fato profugus «profugo per volere del fato», ammette lui stesso rivolgendosi a Didone di non cercare l’Italia per un proprio volere. Ecco come l’Eneide, letta da Paduano, riesce a sorprenderci con la sua inquietante originalità: rispetto alla compattezza dell’eroe epico greco (Odisseo, in particolare, non dimentico di Itaca, anche tra le braccia di Circe o di Calipso), Enea sperimenta un disallineamento tra la propria volontà e il grande cammino della Storia.
«I moderni» di Barchiesi
In un saggio di perenne attualità Marino Barchiesi ritrasse i «moderni alla ricerca di Enea», allargando pionieristicamente l’orizzonte degli studi classici alla cultura e alle letterature contemporanee, ma si può dire che questa ricerca cominci già con Virgilio. E l’Enea che Virgilio ha trovato è un eroe istituzionalmente conflittuale, un capo troiano che attraverso il viaggio provvidenziale deve non ricongiungersi con la propria originarietà, ma inventarne una nuova. La scena originaria della poesia virgiliana, nella prima ecloga, rappresentava l’esule Melibeo costretto ad abbandonare le proprie terre: gli era mancato, diversamente da Titiro, il contatto salvifico con la grande città di Roma e gli dei che la abitano. Adesso, nella dimensione enorme della Storia, da cui proprio Roma ha tratto origine, all’esule da Troia tocca di inseguire una nuova patria: e, comprensibilmente, non ne ha troppa voglia. Quello di Enea è un obbligo, Enea aderisce in sostanza a un principio di autorità, così come Virgilio non è Omero, e i moderni si riplasmano nei loro atteggiamenti e ideologie differenziandosi da un’ingenuità antica.
Nel momento stesso in cui Enea da eroe omerico si fa eroe moderno, la sua personalità si esprime attraverso strumenti conflittuali che sono profondamente debitori della grande esperienza tragica greca. E qui Paduano, che con il teatro in ogni sua forma ha intrattenuto una così lunga e proficua consuetudine, si mostra lettore particolarmente felice: dalla sua capacità di ascoltare il testo, lasciando parlare il personaggio – come fosse vivo e mobile, sulla scena –, discende una sorprendente freschezza di interpretazione. Il contesto drammatico, il livello performativo della comunicazione, sono indispensabili per comprendere atti, parole, gesti di Enea, di Didone, dei grandi protagonisti che si muovono sulla scena virgiliana. Proprio dunque l’ammissione rivelatrice «Italiam non sponte sequor» ha una sua verità psicologica (o, se si preferisce, di caratterizzazione) sulle labbra di un Enea che, messo alle strette da Didone, cerca una via d’uscita deresponsabilizzante. E così la dibattutissima espressione di 4, 347«hic amor, haec patria est» (sempre Enea a Didone) viene brillantemente spiegata dalla traduzione e dall’esegesi di Paduano grazie appunto al sottinteso ironico proprio di una vera conversazione: «questi per me sono amore e patria», dice Enea dell’Italia profetizzatagli come approdo da Apollo, non perché in Italia potrà davvero trovare amore e patria (cosa evidentemente falsa), ma con disperata e ultimativa ironia, per dire a Didone che non potrà esserci per lui alcun amore né alcuna (vera) patria. Insomma, ancora l’obbligo del viaggio fondativo, dimensione futura (e postuma) che annulla qualunque pulsione e desiderio istintivo dell’individuo nell’oggi.
«La tecnica» di Heinze

Quella di saper cogliere i vari livelli comunicativi, e quindi semantici ed espressivi, nel testo virgiliano, è una lezione che risale, in modo particolarmente influente, al grande saggio di Richard Heinze, tradotto in italiano come La tecnica epica di Virgilio. Di Heinze si è nutrita tutta la tradizione esegetica virgiliana novecentesca, che sostiene adesso e dà fondamento al lavoro esegetico, anche quello dello stesso Paduano. Infatti, accanto ai grandi commenti estensivi a tutto il poema (in Italia quello di Ettore Paratore), si è avuta una proficua e durevole stagione di commenti ai singoli libri, che in tempi più recenti sono stati prodotti da Philip Hardie, Stephen Harrison, Nicholas Horsfall, Richard Tarrant, Alfonso Traina. A questo si aggiunga l’assiduo lavorio critico sul testo, che attualmente si concentra soprattutto attorno a tre edizioni di riferimento, quelle di Roger Mynors, Mario Geymonat e Gian Biagio Conte. Una così ampia produzione critico-interpretativa, che include anche larga parte della bibliografia secondaria, sebbene per brevità Paduano faccia riferimento ai repertori bibliografici già esistenti, rifluisce nelle fitte ma fruibilissime pagine del commento, distribuendosi, con innovativa e attraente tecnica esegetica, su due livelli: un primo livello di presentazione e analisi del gruppo di versi, si potrebbe dire «a maglie larghe», per catturare i punti essenziali dell’interpretazione; un secondo livello, più dettagliato e al contempo stringato, «a maglie strette», in cui vengono raccolti tutti i confronti utili al lettore che volesse addentrarsi nell’esegesi.

Un accesso per i giovani
Le doti di Paduano traduttore, esercitatesi si può dire su tutta la letteratura antica, sia greca che latina, sono ben note e riconosciute, ma è particolarmente interessante vederne la riuscita in un momento in cui sul «tradurre l’Eneide»ha richiamato l’attenzione Alessandro Fo, con la sua ammirevole impresa (è del 2012 la sua traduzione del poema, per la «Nuova Universale» Einaudi, la cui premessa è significativamente intitolata «Limitare le perdite: nota alla traduzione»). La soluzione di Paduano è una resa piana ed elegante, precisa e proficuamente fedele, anche nei momenti più intensi, che la qualifica come utile accesso al poeta per ogni lettore, anche in particolare per i giovani che leggano Virgilio per la prima volta e debbano magari «prepararlo» per la scuola o l’università (per inciso: sarebbe davvero utile poter disporre quanto meno dell’Eneide di Paduano, con traduzione e commento, in un’edizione economica a scopo didattico).
Mi limito a una sola esemplificazione. Si tratta di un luogo notissimo del libro I, che lo stesso Paduano definisce come «l’emistichio più affascinante e profondo, forse, di tutto il poema» (p. xxi), uno scrigno di significati che è una sfida, per qualunque traduttore, cercare di aprire:«sunt lacrimae rerum» (1, 462). Se molti traduttori si sono sforzati di spiegare traducendo, con la conseguenza però di confondere e distrarre, Paduano trova l’efficacia della semplicità e ricorre al nudo «cose» (termine e concetto che, del resto, è molto pregnante nella cultura e in particolare nella filosofia contemporanee): «Anche qui la gloria ha il suo premio, / le cose hanno lacrime, e le vicende mortali toccano il cuore». Il parallelismo con il verso precedente chiarisce in «hanno» il senso di «ricevono», evitando l’enfasi fuorviante del Pascoli, che – come ha chiarito Alfonso Traina – parafrasava, da poeta e non da filologo, «le cose sono ebbre di pianto». Ma la traduzione di Paduano, proprio con la sua semplice nitidezza, non sottrae all’espressione forza e capacità di universale espansione: il senso, certo, è che le cose ricevono le lacrime, cioè gli eventi sono compianti (come il merito è ricompensato), ma è anche suggerita l’esistenza di un nesso necessario, ineliminabile, tra le cose (tutte) e quel manifestarsi del dolore – le lacrime – che è così tipicamente umano.
Una tra le più belle definizioni di classico – definizione implicita, probabilmente inconsapevole, e forse proprio per questo azzeccata – è quella che si deduce da quanto il retore Eraclito, vissuto tra I e II secolo d.C., dice della lettura di Omero, compagno di ogni individuo fin dalla più tenera età: «come smettiamo, abbiamo sete (dipsomen) di ricominciare da capo» (Questioni Omeriche 1, 6). Il desiderio inesauribile del grande testo riconduce ogni lettore alle sensazioni primordiali della giovanissima età, quando non si è mai paghi, e anzi aiuta a spiegare perché gli stessi poeti antichi insistessero tanto sull’idea della poesia come «gioco»: sono due fanciulli, in quell’ecloga sesta che si apre appunto sull’idea della poesia come lusus, a immobilizzare caparbi il Sileno, per ottenerne il dono di canti tanto a lungo desiderato.
Gioco e giovinezza sono anche, però, il reame delle domande candide ed estreme, cui il Virgilio di Paduano con coerenza non si sottrae: se l’Eneide, ma anche le Bucoliche e le Georgiche sono lette nella prospettiva di «obbligo e forma», se Enea è un eroe la cui individualità si fa evidente proprio nel momento in cui viene schiacciata dalla macchina del fato, anche il lettore e l’interprete si scoprono esposti ai rischi di ciò che Goethe, citato da Paduano, chiamava filisteismo. Si legge alla pagina xxi dell’introduzione: «…la disponibilità di Enea si definisce come mera adesione a un principio d’autorità, cui la stessa universalità conferisce carattere formale, ed è questo carattere che mi fa parlare di obbligo piuttosto che di dovere, termine al quale si associa un contenuto valoriale; ma se non sbaglio, proprio qui risiede la ragione o una delle ragioni dell’infinito successo del poema: il ridimensionamento della personalità centrale è del tutto consono ad un riduttivismo ben presente nella cultura occidentale, dove ha autorità il principio di autorità, e del quale i nostri studi recano testimonianza massiccia». E ancora, più avanti: «Non so se sia troppo maligno aggiungere che per Goethe il filisteo per eccellenza è il funzionario pubblico, e per lo più funzionari pubblici sono (siamo) gli studiosi e in genere gli intellettuali». Se la poesia, se la letteratura è un gioco, allora del gioco ha l’intransigenza, talvolta la salutare impertinenza.
È questo l’impulso che anima la ri-lettura virgiliana di Paduano, dal mondo dei pastori mantovani, schiacciati o salvati da Roma, alla natura lavorata e imbrigliata delle Georgiche, all’Italia patria obbligata del profugo Enea. È una lettura preziosa e illuminante, nell’inizio di quel 2017 che ricorda i duemila anni dalla morte di Ovidio, altro poeta tradotto e studiato da Paduano. Confinato in una remota regione dell’impero, lontano proprio da quella Roma che era stata fulcro della sua vita e della sua poesia, Ovidio fu colpevole di essersi concesso troppo al gioco della poesia, di aver troppo ascoltato dolori e lacrime ovvero gioie e risa delle cose.