Tenerezza data, tenerezza ricevuta, nessuna … Baci dati al mattino. Baci ricevuti al mattino, nessuno … Aveva continuato a raccontargli di quando era bambina, del limbo di mancanze in cui era rinchiusa, della terra mai innaffiata, dei gesti mai arrivati. Finché un giorno lui le aveva detto: «Le tue storie d’infanzia mi fanno incazzare. Vai nel bosco, prendi il tuo cestino, il notes, la penna, mettiti sotto un melo e scrivile». Era la prima volta. Nessuno le aveva mai dato fiducia, nessuno si era mai soffermato a vedere qualcosa in lei. Così era andata, e ora aspettava. Tra gli alberi e il vento, tra i rami e la luce, avvolta dai sussurri della campagna, nel sommesso indescrivibile che prelude al concerto. Ecco. Ora il tempo si sarebbe fermato, espanso dilatato. In questa pausa leopardiana avrebbe immerso la sua penna nell’inchiostro blu, partorito la sua prima «indimenticabile frase». Mia madre non mi ha mai preso per mano. In quell’istante perfetto sarebbe maturata la sua scrittura.
Violette Leduc se ne è andata nel 1972, eppure domani, domenica, al Florence Queer Festival – 21/27 novembre – grazie allo squisito incantamento del documentario omonimo firmato da Esther Hoffenberg (titolo originale La chasse à l’amour), sarà possibile essere con lei sotto quell’albero, respirare i profumi e i fruscii della sua fiabesca iniziazione alla letteratura. Libera. Mai conservatrice. Bastarda («ma non amo quella parola, fu Simone de Beauvoir a scegliere il titolo»). Illegittima. Perseguitata. Inascoltata. Asfissiata. Affamata. Acclamata. Censurata. Internata. Istintivamente erotica, creativamente erotica. E di nuovo libera, accessibile prossima umana. Ci attenderà alla fine delle scale, al di là di quella tenda, tra le still life della sua casa parigina, o del dolce ritiro di Faucon, tra gli oggetti con cui, per farla in barba alla solitudine, era solita parlare, flirtare. Ecco, col suo essere «oltre l’oltre», con la sua luccicanza di donna nata agli albori del ‘900 (era del 7!), con il suo temerario darsi alla dolorosa autoironica e imperfetta verità di sé, potremo forse immaginarla come la lanterna di questo festival, specchio di una ricerca che nelle sue esplorazioni ormai più che decennali continua acutamente a interrogarsi su se stessa, tra frontiere, trappole e possibilità. Perché, è vero, a «caccia» di sé e della propria incommensurabile sessualità, non è possibile prescindere dai gangli acuminati delle origini, dall’infinito dialogo con le figure chiave dell’infanzia, cosa che il tracciato di Leduc – «alla storia» come figlia illegittima di una cameriera e del figlio del suo datore di lavoro – non fa che ribadire esemplarmente («Voglio guarire il tuo ventre, mamma … Tu dici talvolta che io ti odio. L’amore ha innumerevoli nomi»), è vero che l’opposizione a una visione complessa della sessualità e ai diritti Lgtb è ancora in misure diverse politicamente e socialmente in atto nel mondo, pure penso che un cinema «queer» che, proprio in quanto tale, voglia librarsi al di là di se stesso, sfuggire l’autoreferenzialità, aprirsi a un pubblico a sua volta non etichettabile, non possa farsi risucchiare dal «gorgo» drammaturgico pur cruciale del coming out, del rivelarsi e del senso di colpa. (Su questo sarà comunque importante vedere per esempio Purple skies, l’accorato time-lapse dai cieli indiani di Sridhar Rangayan, tra dinamico illuminarsi della coscienza lesbica e instabilità «meteorologica» degli scenari legislativi). Perché come brillantemente va a segno la scrittrice Cécile Vargaftig – tra le meditatissime presenze, amici e studiose/i, che intessono di sottili riflessioni Violette Leduc, il doc – essere omosessuale non è soltanto, e non può ridursi a osare di esserlo. In questo, di nuovo può farci riflettere il vissuto artistico-esistenziale di V.L., pioniera in un mondo ancora muto e sordo a qualunque parola per dire i suoi amori: siano per una donna o per un uomo (omosessuale dichiarato come l’adorato Jacques Guérin), il suo aborto, che Gallimard rimuove dalle pagine, il suo primo orgasmo a 50 anni, il suo erotismo lesbico di donna talmente ai margini da non sapere cosa sia «colpa», la sua lingua come parte umida di sé che irrora dove non c’è quasi altro se non l’arsura del linguaggio maschile, intingendo inchiostro blu nel sesso dell’amata. Violette, angelo pronto a riapparire tante quante saranno le visioni di questo film sublimemente transgender tra letteratura e cinema, tra foto in seppia e found footage (materiali ritrovati e rimontati), tra sensualità tattile dell’immagine e cura pulviscolare del suono (abbandonatevi al flusso accogliente e imprevedibile della voce off di Dominique Reymond, come a quello di V.L. stessa e della musica di Francesco Agnello …). Che dérangement! Che tourbillon stile Truffaut/Moreau! Ma per agirlo, per viverlo in consapevolezza e presenza, per «diventare ciò che siamo», occorre essere «visti», accolti, almeno una volta. Almeno per pochi secondi … dice ancora Vargaftig.
Così fu per Leduc con Maurice Sachs, il primo, nell’incipit di cui sopra, a contemplare l’écrivain in lei, così fu con Simone de Beauvoir, che lesse le sue pagine a migliaia – che goduria scoprire le correzioni in nero dell’una accanto alla scrittura in blu dell’altra, in unico mirabile conflitto/dialogo creativo – che per quasi 20 anni (fino al successo nel ’64 de La Bâtarde), la sostenne economicamente. Difficile allora, mentre Simone la aspetta per la prima volta al café de Flore non farsi inondare da quell’amore che l’autrice di Una morte dolcissima non ricambierà mai (se non come vicinanza intellettuale e affettiva), difficile non tenere tutta la vita la sua foto sul comodino, anche quando de B., apprensiva sul suo stato di salute, la farà condurre in clinica da Claude Lanzmann … («Andiamo a seppellirmi»…). Questo può rappresentare sempre più un fest come quello di Firenze. La chance di «vedere» quello che potremmo essere, avere braccia più accoglienti che mai. Come accade anche con Happy end ?! della regista tedesca Petra Clever. Lì, in un’opera imperfetta ariosa e sentita, sarà Valerie, cantante lesbica dal passato e dalla sensibilità travagliata, a instillare in Lucca, una giovane studentessa di legge ancora in cerca di sé, il progetto «illegal» di rubare le ceneri di colei che per Val incarna la sua vera famiglia (per restituirle al luogo che la donna stessa aveva scelto), nonché la possibilità di conoscersi davvero oltre una rigida definizione identitaria sessuale o una forzatura genitoriale. Allora, compresa la morte, niente sarà escluso, allora, interrogandosi tanto sui segni di interpunzione quanto sulla valenza dei finali, i generi – commedia e dramma – si scambieranno gli abiti, allora sarà magnifico piangere anche infinite lacrime. Perché c’etait vivre. Avrebbe detto Violette. maria_grosso_dcl@yahoo.it