Aumenta il numero delle ragazze che denunciano di essere state aggredite in piazza Duomo a Milano la notte di Capodanno. Gli inquirenti indagano su altri due episodi oltre ai tre oggetto delle indagini e che hanno già coinvolto nove vittime.

DAL RACCONTO delle ragazze emerge uno schema di aggressione simile per tutti e tre i gruppi individuati: a cerchi concentrici, con gli aggressori attorno alle vittime a rimpallarsi le ragazze e con una persona, che alcune vittime sembrano identificare come una sorta di capo del gruppo, che fingeva di aiutarle tenendole agganciate psicologicamente alla speranza di uscire dal cerchio di violenza.
L’esistenza di questo presunto capo, o figura rilevante in quei momenti, è ora al centro delle indagini degli inquirenti.

Per il momento fonti investigative dicono che non c’era un organizzatore delle aggressioni, ma persone che erano più attive in quella che sembra «la regia delle violenze». Una delle 4 ragazze aggredite verso mezzanotte e mezza vicino alla Galleria Vittorio Emanuele ha raccontato che mentre una di loro dopo gli abusi cercava di ritrovare la sua borsa, un ragazzo di circa 25/30 anni si avvicinava all’improvviso parlando in italiano con un forte accento nordafricano e dicendole: «vado io a trovarti la borsa». Poi si allontanava «verso il centro della piazza e tornava dicendo che la borsa non l’aveva trovata». La ragazza, è scritto nei verbali, aveva avuto «la sensazione che fosse il capo del branco».

Anche un’altra ragazza ha raccontato di un ragazzo che parlava sia italiano che arabo e che diceva «di poterla aiutare a ritrovare la borsa», dicendo loro di seguirlo e che avrebbe fatto «qualche telefonata». Sembrava essere «il capo di tutta la banda perché aveva detto con convinzione che avrebbe trovato la borsa» ma poi aveva «riferito che non riusciva a trovarla».

LE RAGAZZE hanno raccontato che il cerchio di uomini le spingeva da dietro e loro sbattevano contro gli uomini che avevano davanti. «Siamo così cascate e mi sono ritrovata per terra, senza riuscire a rialzarmi e sentendomi soffocare, ho iniziato a pensare di morire. Ero atterrita dalla paura, mentre la mia amica strillava. Io non riuscivo, ero stravolta dalla situazione e mi mancava il fiato. Presto siamo state accerchiate e ci siamo trovate attorniate da persone nordafricane. In particolare, mi sentivo toccare da quelli dietro di me, mentre altri, posizionati davanti a me, mi davano le spalle e urlavano».

SONO MODALITÀ DI VIOLENZA di gruppo che qualcuno, come l’antropologa Maryan Ismail, ha paragonato alle aggressioni viste a piazza Tahrir al Cairo, in Egitto, nel 2011 durante le proteste che portarono alla caduta di Mubarak, o a Colonia durante il Capodanno del 2016.

Il profilo degli indagati è quello di giovani ragazzi stranieri o italiani di seconda generazione che abitano nelle zone popolari delle città. Mahmoud Ibrahim, 18 anni, uno dei due ragazzi arrestati, viveva con il padre nel quartiere Dergano di Milano, una zona multietnica al centro di un processo di gentrificazione.

Lavorava come muratore insieme al papà «nelle tante case di Milano in ristrutturazione» come ha raccontato il genitore il giorno dell’arresto.
Arrivato in Italia dall’Egitto con un barcone via mare, il ragazzo parlava poche parole d’italiano. È uno di quei ragazzi di Milano che Milano non riconosce come propri. «Nei quartieri popolari c’è un’urgenza educativa e culturale drammatica», ha detto Don Massimo Mapelli della Caritas Ambrosiana.

Milano ciclicamente si risveglia fingendosi sorpresa della violenza che porta dentro di sé.

SOLO POCHI MESI FA la notizia sui giornali erano i festini violenti di Alberto Genovese, ricco rampollo «dell’altra Milano», accusato di abusi terribili su ragazze durante i festini alla tristemente nota “terrazza Sentimento” che, coincidenza, si trova proprio a due passi da piazza Duomo. Ma la guarda dall’alto, lontana dalle strade attraversate dai ragazzi delle violenze di Capodanno.