Si conclude oggi la «campagna dei 16 giorni» lanciata nel 1991 dal Center for Women’s Global Leadership e assunta dalle Nazioni Unite per sottolineare che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani. L’iniziativa, che dal 1991 ha coinvolto oltre 6.000 organizzazioni internazionali e della società civile in 187 paesi, collega due importanti ricorrenze: la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza di genere e la Giornata Internazionale per i diritti umani.

Secondo dati Onu, nel mondo 243 milioni di donne nel 2019 hanno subito violenza da parte del partner o ex partner. In Europa, il 25 novembre il Movimento delle donne curde ha lanciato la campagna «100 giorni» per raccogliere storie di donne abusate e uccise dal governo dell’Akp e raccogliere firme contro le politiche femminicide del regime turco, al fine di chiedere alla Corte dell’Aja di processare Erdogan per crimini contro le donne.

Il Rapporto Eures ha rilevato che in Italia le donne uccise tra il 2000 e il 31 ottobre 2020 sono state 3.344, con una escalation nei primi dieci mesi di quest’anno, che hanno registrato 91 femminicidi, uno ogni tre giorni, in gran parte in ambito familiare.

Ma la violenza di genere non si esprime soltanto con uccisioni e abusi sessuali. Si esprime attraverso matrimoni forzati e spose bambine, diseguaglianze e discriminazioni. La lotta per contrastarla passa, pertanto, anche attraverso le pari opportunità, nei campi dell’istruzione, dell’occupazione, delle politiche retributive e della carriera professionale, coinvolgendo l’intera gamma dei diritti umani e portandoci nel pieno della Giornata Internazionale che si celebra ogni 10 dicembre.

La notte di Capodanno del 1945 una donna alta, avvolta in un soprabito nero, salì a bordo della Queen Elizabeth diretta a Southampton. La nave di linea, ancora verniciata di grigio perché utilizzata per il trasporto delle truppe, si accingeva a solcare nella nebbia e nel freddo un oceano agitato per portare la delegazione degli Stati Uniti, nominata dal neo-presidente Harry Truman, alla prima riunione dell’Assemblea generale dell’Onu che si sarebbe svolta a Londra il 10 gennaio 1946.

Era Eleanor Roosevelt, unica presenza femminile nella delegazione, non più First Lady dopo la morte del presidente, Franklin Delano, avvenuta pochi mesi prima e non ancora consapevole di avere imboccato la strada verso il traguardo più importante della sua già illustre carriera: la stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che sarebbe stata approvata dopo un lungo e intenso lavoro il 10 dicembre del 1948.

Di quel documento, destinato a ispirare un gran numero di costituzioni nazionali, compresa la nostra, di trattati postbellici o post-coloniali e a diventare la stella polare dell’esercito di attivisti che si battono per i diritti umani internazionali e per la libertà, Eleanor, eletta all’unanimità alla presidenza della commissione competente, è considerata la principale artefice.

La Dichiarazione divenne il pilastro di un nuovo ordine di relazioni internazionali inteso a prevenire il ripetersi degli orrori di due guerre mondiali, del nazifascismo e della tragedia di Hiroshima e Nagasaki, le cui immagini erano ancora fresche negli occhi del mondo. Basato sul principio per cui il modo in cui una nazione tratta i suoi cittadini non riguarda soltanto quel paese e non è esente da controlli esterni, quel nuovo ordine si è presto rivelato illusorio – in un mondo in cui la salvaguardia dei diritti umani si fa spesso pretesto per interventi armati o pressioni economiche.

Ma allora, pur essendoci tutte le ragioni per disperare della condizione umana, un gruppo di uomini e donne eccezionali lottarono con tutta la loro volontà per formulare un insieme di principi chiaro e applicabile in tutto il pianeta.

Il compito era irto di ostacoli. 58 nazioni avrebbero lavorato insieme, attraverso i loro rappresentanti, in un consesso internazionale di cui facevano parte paesi capitalisti e paesi comunisti, regimi totalitari e democrazie, sotto la cappa dell’incalzante deterioramento delle relazioni tra l’Urss e l’Occidente.

Le barriere da superare erano tante. Ideologiche e politiche, come rivelavano le frizioni esplose ogni qualvolta i delegati sovietici inserivano nei testi clausole di propaganda, o quando si levavano accuse di tentata egemonia delle potenze occidentali. Erano linguistiche, religiose, filosofiche e culturali.

Erano economiche e sociali, come emerse quando la delegata indiana evidenziò l’impossibilità di andare oltre l’obbligo della scuola primaria nel definire gli obiettivi in materia di diritti all’istruzione. Ciononostante si giunse a un documento condiviso, composto da un Preambolo e da trenta articoli, di cui ventidue relativi ai diritti politici e civili e otto ai diritti economici e sociali.

Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita nella sua terza sessione, approvò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani con quarantotto voti a favore, nessun voto contrario, otto astensioni prevalentemente in area sovietica e due assenze. Eleanor Roosevelt aveva coronato il progetto, condiviso con Franklin Delano, di costruire una grande organizzazione delle nazioni, facendosi artefice in prima persona di quella che, per usare le sue parole, aspirava a diventare «la Magna Charta internazionale di tutti gli uomini in ogni luogo del mondo».

Ma già gli eventi immediatamente successivi, dominati dalla guerra fredda, mandarono quelle speranze in frantumi. Oggi, gli Stati membri delle Nazioni Unire sono 193 e le violazioni dei diritti umani sono una piaga mondiale, come testimoniano i rapporti delle organizzazioni internazionali.