L’ultimo libro di Vinciane Despret, filosofa della scienza belga, si intitola Habiter en oiseau (2019), uscito in contemporanea alla tardiva ma necessaria edizione francese di The Companion Species Manifesto (2003) di Donna Haraway, di cui Despret cura la bella introduzione. I due testi sono accomunati dall’avere come protagoniste le «specie compagne» che annoverano non solo gli animali cosiddetti da compagnia ma anche tutte quelle specie – colonie di microbi comprese – che accompagnano l’esistenza degli umani.

Despret, le cui competenze in etologia le consentono di accostarsi alla ricerca ornitologica, evidenzia il valore della narrazione di «paesaggi sonori»: attraverso canti che si ripetono e che mutano ci fa attraversare e conoscere la nozione di «territorio», permettendoci di andare oltre l’idea pregiudiziale che il comportamento animale segua regole che non mutano nel tempo. Riferendosi agli insegnamenti derivanti dallo sguardo che i popoli autoctoni rivolgono al mondo animale, Despret sostiene che il comportamento animale racconti in tempo reale ciò che accade al pianeta e che tali racconti siano «generativi», in grado di generare narrazioni del territorio che gli esseri viventi attraversano o che abitano.

Queste narrazioni, spiega la studiosa nella nuova edizione di Quand le loup habitera avec l’agneau (2020), non si limitano a raccontare mondi ma ci consentono di comprenderli. È infatti attraverso questo legame con il «non umano» che gli esseri umani possono imparare a trascrivere la parola del Vivente: «Le storie non solo raccontano, fanno esistere mondi e ci invitano a “capirli”. Drammatizzano, intensificano le importanze, modificano attenzioni e modi di comprendere, aprono possibilità inosservate, ritessono i legami tra ciò che è stato sciolto. Ci creano. E suscitano altre storie».
Tramite la costruzione di relazioni di alterità, relazioni interspecie che non siano contrassegnate da statuti di dominio, è possibile costruire una nuova genealogia. Pensarci come animali umani e ragionare in quanto humanimals, ci consente di vedere come gli umani e gli animali co-creano la storia. Attraverso una nozione riscoperta della voce «parentela» la pratica multispecista dell’ascolto delle specie compagne si fa racconto, generativo e rigenerante.

La «retorica» della guerra al virus, dello sradicamento, ha dilagato nei primi mesi della pandemia e sembra ancora attiva. Come filosofa della scienza può spiegarci cosa rivela questa persistenza?
In quanto cittadina rispondo che la retorica guerresca espressa dal governo francese, non l’unica possibile e piuttosto diversa ad esempio da quella belga, ha rappresentato a mio avviso un «pessimo inizio». Innanzitutto per inadeguatezza: non ci si può dichiarare in guerra contro un virus, le guerre sono tra gli Stati. Secondariamente perché questa retorica genera l’effetto nefasto di considerarsi in guerra e quindi di marcher au pas, di inquadrare la propria andatura secondo i modi della marcia militare, nel senso dei soldati ma anche dei civili – in quanto potenziali vittime di uno stato in guerra. Ciò ha causato l’emergere, conseguente, di coloro che si definiscono dissidenti rispetto a questa retorica, quelle e quelli che disertano e che sono considerati disturbanti a causa di un potenziale sabotaggio dello sforzo collettivo. Infantilizzazione, obbedienza e una certa docilità sono state le conseguenze di questa retorica emergenziale. In quanto filosofa della scienza, rifacendomi alle dichiarazioni di Bernadette Bensaude-Vincent e al pensiero dell’antropologa Charlotte Brives, sento di dire che la persistenza di questa retorica ha radici nella metafora dell’eradicazione dell’imprevedibile, del debordante, nei confronti del vivente, che è invece per sua natura oltre il prevedibile, proliferativo e in mutazione. La risposta di una società di controllo a qualcosa di incontrollabile come il Vivente deriva dal desiderio di padronanza sull’esuberanza della vita. Credo sia necessario abbandonare le «retoriche mobilizzatrici» e guardare alla risposta diplomatica, che significa la convivenza con il virus. Abbiamo molto in comune con batteri e i virus, siamo in qualche modo loro eredi; da lì è nata la vita sulla terra.

La garanzia di protezione inscritta nella definizione di «biosicurezza» degli allevamenti industriali non sembra riuscire a garantire la tutela animale e neppure quella di noi umani. Quali sono i limiti in termini di pericoli sanitari di un modello economico che spinge al consumo senza misura a all’occupazione dell’habitat forestale, sempre più degradato? Quali saranno gli effetti a lungo termine di un sistema produttivo che fabbrica epidemie a catena?
Nel recente Les sentinelles des pandémies: Chasseurs de virus et observateurs d’oiseaux aux frontières de la Chine, Frédéric Keck sottolinea che l’emergenza di nuovi patogeni è spesso spiegata dai cambiamenti nei rapporti con gli animali. Le zoonosi ci fanno pensare in modo diverso alla relazione tra esseri umani e non umani. Il comportamento umano contribuisce a queste emergenze, attraverso il commercio globale di animali selvatici che avvicina gli esseri umani, in termini di prossimità fisica, ai serbatoi virali. Ma anche le misure di biosicurezza volte in teoria a controllare questi serbatoi sono in grado di alterare le relazioni tra umani e animali. Legare le zoonosi alla domesticazione è sbagliato, o quanto meno parziale: gli animali diventano vettori pandemici quando sono immessi in sistemi di globalizzazione e industrializzazione del Vivente. È la contrazione della distanza tra habitat a provocare le pandemie. Non è certo l’allevamento locale di piccoli produttori, ai quali sono imposte nuove normative, a rappresentare un rischio per la biosicurezza.

I rituali di riparazione che abbiamo avuto modo di apprendere a seguito di un lutto privato non corrispondono a quelli della riparazione del «lutto collettivo» che attraversa le nostre società nei tempi pandemici.
Credo che il lutto sia privato e di conseguenza politico. Non credo che la perdita sia «collettivizabile». Le relazioni che intratteniamo con i nostri defunti, se le intratteniamo, sono private perché a livello collettivo c’è invece una forma di resistenza e di diffidenza nei confronti del culto dei propri morti. La psiche è disciplinata tramite la presa di posizione generalizzata che l’individuo quando è morto non esista più e che questa «non esistenza» si confermi attraverso la sua dimenticanza nel tempo, che sembra essere a livello collettivo l’unica risposta al lutto.
Tuttavia c’è chi intrattiene, privatamente, diverse forme di rapporto con i propri morti. È esattamente per questo motivo che credo sia inverosimile una risposta collettiva. È piuttosto tra le maglie di quello che l’antropologo James C. Scott chiamava «l’infra-politica», aldilà dello spettro del visibile del discorso ufficiale e egemonico, che si situa il rapporto con i nostri morti. Per questo non è possibile una riparazione del «lutto collettivo», perché obbligherebbe coloro che praticano l’infra-politica della «non dimenticanza» dei propri morti ad aderire a un modello visibile, dichiarato pubblicamente e quindi irrimediabilmente esautorato.

Nel suo libro «Quando il lupo vivrà con l’agnello. Sguardo umano e comportamenti animali», lei spiega l’importanza dell’ascolto del mondo animale, creatore di quelli che chiama «racconti generativi». Essi infatti sarebbero capaci non solo di raccontare, ma farebbero «esistere dei mondi invitandoci al comprenderli». Quali condizioni e luoghi dell’immaginario possono condurci all’ascolto e a questa rinnovata comprensione?
Innanzitutto porrei una distinzione, anzi una filiazione, che mi sembra davvero importante tra «immaginazione» e «immaginario». È l’immaginazione che crea l’immaginario. L’ascolto del mondo animale permette di passare a un altro immaginario grazie all’immaginazione. Quando troviamo «silenzioso» un luogo incontaminato è perché non siamo, o non siamo più capaci, di ascoltare i racconti animali che ci circondano. David Abram, filosofo ecologista, parla della capacità di essere sollecitati da questi racconti. Invece siamo anestetizzati, ci auto-anestetizziamo.
In Habiter en oiseau esordisco parlando del canto di un merlo che mi ha svegliata una mattina, quando la finestra aperta della mia camera da letto aveva significato la fine dell’inverno. Il suo canto ha contato perché è stato generatore di quella bellezza che apre alle forme di agentività, ma anche alla grazia di «essere sollecitata».
I racconti animali sono generativi e rigenerativi, nel senso che ci curano dallo stato di anestesia permanente in cui ci relega il reale, soprattutto quando vanno oltre quello che ci aspetteremmo da loro. Questi racconti possono anche diventare una sorta di eredità delle specie estinte e di quelle in estinzione. Come scrive Donna Haraway le estinzioni animali possono significare infatti anche l’estinzione, intesa come spegnimento, di prospettive altre sul e del mondo. Le estinzioni rendono il mondo sempre più vuoto e più piccolo, rimpicciolito dalle perdite.

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SCHEDA bio-bibliografica

Filosofa delle scienze e psicologa, docente all’Università di Liegi, Vinciane Despret è autrice di molti studi sulla questione animale. In italiano: «Quando il lupo vivrà con l’agnello. Sguardo umano e comportamenti animali» (Elèuthera, 2004) e «Non dimenticare i morti. Il racconto di quelli che restano» (Nuova Ipsa, 2017). Ha anche pubblicato, con Isabelle Stengers, «Les Faiseuses d’histoires. Que font les femmes à la pensée?» (La Découverte, 2011). Sua la prefazione a «Les sentinelles des pandémies : Chasseurs de virus et observateurs d’oiseaux aux frontières de la Chine» di Frédéric Keck (Zones sensibles, 2020).