Villella e la questione meridionale
Scaffale «Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso» di Maria Teresa Milicia, editrice Salerno
Scaffale «Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso» di Maria Teresa Milicia, editrice Salerno
Non è operazione facile, oggi, ripercorrere la storia dell’unità d’Italia. Concetti, idee, magari dogmi che fino a poco tempo fa sembravano far parte di una coscienza condivisa, oggi inducono aspri dibattiti; la convinzione di fondo della bontà del processo unitario oggi lascia il posto a critiche estreme: tra indipendentisti veneti e neoborbonici meridionali i punti di vista sono probabilmente diversi su tutto, tranne che sulla voglia di farla finita con il mito di un’unità voluta dall’insieme degli italiani. Ch’era, appunto, un mito: da indagare, da comprendere, da smontare finché si vuole; e l’analisi storiografica a questo serve e ha in effetti compiuto passi interessanti nella giusta direzione. Senonché, alla retorica patriottarda insopportabile che circolava e ancora spesso circola, è facile che oggi si sostituiscono sentimenti contrari ma altrettanto se non più beceri e irritanti; fino a qualche tempo fa percorrevano l’Italia tra Veneto e Lombardia (dal «dio Po» ad Alberto da Giussano ad altre pagliacciate folkloristiche), oggi fanno capolino anche in Italia meridionale, non tanto nell’ambito della politica, quanto attraverso la rete, le pubblicazioni non accademiche, la propaganda di centri culturali o sedicenti tali.
Così, di recente, è accaduto che la presentazione del nuovo libro di Maria Teresa Milicia, Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso (Salerno editrice, pp. 167, euro 12), prevista a Motta Santa Lucia in Calabria (regione della quale Milicia è originaria) sia stata cancellata per il timore di contestazioni troppo dure. Il libro così controverso ricostruisce l’ambiente sociale e intellettuale nel quale si svilupparono le teorie di antropologia criminale di Cesare Lombroso, al centro delle quali si trovava l’osservazione di un cranio attribuito a un uomo, Giuseppe Villella, nato appunto a Motta Santa Lucia e morto a Pavia, dov’era detenuto.
Ben poco è noto circa la vita e le ragioni della carcerazione del Villella; nonostante ciò, la volontà di assegnare a Lombroso e alle sue discutibili teorie il ruolo di costruttore di un razzismo biologico antimeridionale ha fatto sì che il povero Villella sia assurto al ruolo di «brigante», inteso ovviamente quale sinonimo immediato di combattente per la libertà del sud contro l’annessione piemontese, per quanti ne reclamano ormai la memoria di martire. In realtà, gli si attribuisce un ruolo non suo; Milicia ricostruisce, attraverso un’accurata analisi delle fonti d’archivio, ciò ch’è dato sapere dell’esistenza da bracciante di Villella e della condanna a pene detentive per reati comuni; la carcerazione lo condussero a morire in carcere per le patologie che affliggevano (e sovente purtroppo affliggono) i detenuti. Insomma non un prigioniero politico, non un martire, ma come tanti altri la vittima di uno stato di povertà e di deprivazione estreme.
Curioso che la ricostruzione della sua esistenza si debba alla studiosa contestata per aver difeso la memoria di Lombroso, e di conseguenza offeso quella di Villella, considerato una sua vittima a causa di un apparente difetto della conformazione del suo cranio che, arrivato fra le mani di Lombroso, avrebbe indotto lo studioso a formulare le teorie per cui è noto. Curioso, soprattutto, che i fanatici indignati per l’ipotesi della presentazione in Calabria non abbiano voluto leggere con maggiore attenzione un libro che non costituisce un’assoluzione di Cesare Lombroso, ma che è una ricostruzione accurata e a tratti anche divertente di un personaggio, di un ambiente culturale in senso lato e accademico in senso stretto. I percorsi che condussero alla sviluppo di un razzismo antimeridionale e in particolare anticalabrese sono indagati, non elusi.
Inutile forse ripetere che la storia non andrebbe trattata alla stregua di una partita di calcio, nella quale è lecito tifare per la propria squadra anche quando non se lo merita, anzi magari soprattutto quando non se lo merita. Nel caso della storia, che sia quelle della «questione meridionale» o di tante altre ferite aperte, l’indagine è sovrana e i suoi risultati si possono e si devono contestare solo attraverso altre analisi, non per partito preso. Non esistono verità acclarate una volta per tutte, nel campo della ricerca storica.
Il lavoro compiuto da Maria Teresa Milicia è accurato e certamente non chiude una questione molto più ampia qual è quella del rapporto tra unità d’Italia e questione meridionale, né certo l’autrice sembra mirare a un obiettivo del genere. Si limita a tracciare un quadro di storia culturale preciso e attendibile. Non è poco.
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