Quando con la partizione del subcontinente indiano vennero disegnati a tavolino i confini di India, Pakistan Orientale e Pakistan Occidentale, insieme alla terra furono separate famiglie sikh, indù e musulmane. Violenza, odio e paura diventarono presenze tangibili. Si fuggiva aggrappandosi a un treno in corsa sgangherato e già straripante, camminando a piedi scalzi nella polvere, sobbalzando su carretti di legno. In quella forzata migrazione, tra il 15 agosto e l’8 settembre 1947, i rifugiati furono circa 700mila. Nelle sale del Museo della Partizione di Amristar, insieme ai video con le testimonianze, alle fotografie e ai documenti d’archivio, si conservano oggetti che sono entrati nella storia: un vestito ricamato, un orologio da taschino, vecchie monete, utensili da cucina: handi di rame, mitti di terracotta.

Nella cassa di Laxmi Devi che viaggiò con lei da Lahore a Delhi c’erano anche il ditale, il vaso per i fiori che lei usava come sputacchiera, l’attrezzo dentato per tagliare a mezzaluna i gustosi gujiya, un bicchiere di metallo e il maang tikka, gioiello che le spose del Punjab indossano in mezzo alla fronte. Laxmi Devi era la nonna paterna di Vikrant (nato a New Delhi nel 1992, dove vive e lavora). Lui, artista visivo, dopo gli studi di pittura al College of Art, Delhi University , si è dedicato a un progetto multidisciplinare sull’archivio della memoria familiare con installazioni, performance, video, disegni e fotografie.

Le sue opere sono state presentate in varie esposizioni, tra cui nel 2019 a Proyector international video art meeting di Madrid e al festival Castelnuovo Fotografia. L’incontro con Vikrant è avvenuto al Triveni Kala Sangram di New Delhi, nell’agosto 2019.

In quell’occasione, un po’ timidamente, tirò fuori dallo zaino una copia della zine The story of mud House, sulla casa di fango costruita dai suoi nonni dove la famiglia ha vissuto fino al 2018, quando il governo indiano decise di demolire quelle case rurali nel cuore di Delhi per costruire quadrati di cemento. Aveva con sé anche i quaderni-album con foto e documenti ingialliti dal tempo e il diario di Tulsi Ram, suo padre, che contiene aneddoti e disegni che appartengono al repertorio di storie che era solito narrargli suo padre. La loro famiglia è originaria di Lahore (Pakistan), ma essendo induista nel 1947 fu costretta a partire in fretta e furia lasciandosi il passato alle spalle. Cosa vuol dire casa? La domanda arriva a Vikrant, a distanza di 5.913 chilometri, in questo difficilissimo momento storico.

Come si svolge la quotidianità in tempi di Covid-19? State trascorrendo la quarantena in famiglia a New Delhi?
La mia vita quotidiana è cambiata molto, prima trascorrevo la maggior parte del mio tempo in biblioteca, ora passo più tempo a casa. Sto imparando a cucinare e, quando posso, parlo diffusamente con mio padre. La casa è diventata il mio studio. Ma non è così semplice. In famiglia siamo in quattro: mamma, papà, io e Dipankar, mio fratello minore. L’abitazione è piccola, ha solo due camere, però il cortile è abbastanza spazioso ed è circondato dagli alberi su tutti e quattro i lati. Lavoro da anni sulla storia della mia famiglia e, proprio in questi giorni, sento di essere entrato nel cuore dell’argomento. Questo isolamento è come una meditazione che permette di far crescere il progetto, strato dopo strato.

Quali sono i sentimenti, le frustrazioni che si vivono e cosa vuol dire convivere con la paura di un nemico sconosciuto?
È vero, al momento stiamo proprio combattendo un nemico sconosciuto. La mia paura più grande, e anche il senso di frustrazione, dipende dal fatto che mio padre lavora tutti i giorni in un ospedale ferroviario.

Qual è in generale la situazione a New Delhi? E come si possono descrivere le misure adottate dal governo per affrontare e contenere la pandemia?
Il governo ha chiesto a tutta la popolazione di rimanere in quarantena, per quanto possibile. Si dice che a New Delhi i casi di coronavirus siano tremila. Molti ospedali si sono attrezzati e sono numerosi i treni convertiti in ospedali speciali per trattare i pazienti colpiti dal virus. La situazione non è ancora precipitata, ma l’India intera dovrà prendere la questione molto seriamente nelle prossime tre settimane.

Ripensare il concetto di casa è un tema a cui sta lavorando dal 2017. «Lahore to Delhi» è il progetto in cui viene mappata la storia della famiglia alla luce degli eventi legati alla partizione India-Pakistan: quali sono le direzioni che sta prendendo?
Quando ci siamo incontrati, la scorsa estate, il punto focale era soprattutto la partizione, ora l’argomento si stata ampliando intrecciando varie storie che arrivano ad oggi. Sono sempre stato affascinato dalle complessità dell’idea di casa e famiglia. Nel 2017, quando frequentavo il college, decisi di trascorrere in famiglia i due mesi delle vacanze estive.

Da quando avevo iniziato gli studi non avevo fatto altro che correre. Uscivo di casa la mattina presto per tornare la sera tardi: dopo le lezioni c’era sempre qualche mostra da vedere, lecture, presentazioni. Sentivo che si stava creando una distanza tra me e la mia famiglia, perciò decisi che era l’occasione giusta anche per rivedere gli oggetti, le fotografie, partendo dall’album delle nozze dei miei genitori che si sono sposati nel 1990. Rivedendo quelle foto ho scoperto che c’era un nucleo a sé di vecchie immagini avvolte nei fogli di giornale: erano molto diverse dalle altre. Attraverso l’analisi di abiti e situazioni si leggevano altri aspetti culturali.

E che tipo di ricerca è nata?
Mio padre mi disse che erano foto di parenti che vivevano in Pakistan. Negli anni ’80 un amico di mio nonno che faceva il kabadi wala (commerciante di rottami o rifiuti) ed era solito viaggiare tra Delhi e Lahore, visitando il luogo santo di Gurdwara Panja Sahib a Hasan Abdal, in Pakistan, incontrò molte persone che avevano con sé le fotografie dei propri cari di cui, dopo la partizione, avevano perso le tracce. A distanza di oltre trent’anni le mostravano in giro chiedendo ancora a chi incontravano se li conoscessero. Una volta il kabadi wala portò con sé una foto di mio nonno che mostrò al tempio. Anche prima della partizione, a Lahore, nonno Kalu Ram lavorava nell’esercito britannico some assistente dhobi (lavandaio) ed era molto rispettato. Il kabadi wala tornò a Delhi con una foto del fratello di mio nonno e una lettera in urdu, che però mio nonno non sapeva leggere, perciò fu tradotta e trascritta in hindi. Il kabadi wala divenne l’elemento di congiunzione delle famiglie. Come un postino portava con sé, avanti e indietro tra India e Pakistan, lettere e foto di familiari, così per la prima volta le famiglie poterono essere nuovamente connesse.

Questa storia mi ha spinto a raccogliere materiale d’archivio per ricostruire l’albero genealogico della mia famiglia. Un viaggio nella memoria che ruota intorno a una narrativa in cui ho coinvolti tutti i membri, uno ad uno. I miei materiali vanno dagli anni ’30 al 1947 e proseguono fino ad oggi.
Tra i documenti c’è anche il certificato di rifugiato rilasciato a mio nonno dalle autorità indiane, in cui è scritto che gli sarebbe stata assegnata una casa che, sfortunatamente, non ci è ancora stata data. Mio nonno è morto già da qualche anno, ma ho chiesto a mio padre di scrivere e disegnare su un quaderno le storie che gli raccontava. Parallelamente sto esplorando altri aspetti legati al concetto di casa. Re-fabricated Home riguarda, ad esempio, gli studi urbanistici dell’architetto tedesco Otto Königsberger che propose in India un’idea di casa prefabbricata per i rifugiati all’epoca della partizione. Un progetto che fu approvato ma non ebbe successo.

Sto lavorando anche al Personal Memory Museum e sul progetto dei bungalow dei quartieri dei servitori della ferrovia, costruiti nel 1924 dagli inglesi. Per capire queste case ho studiato molti libri di architettura, ma ho parlato anche con gli anziani. Le storie sono sempre più vive attraverso la voce delle persone.

 

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Vikrant (New Delhi 1992) ha studiato al College of Art della Delhi University. Nel 2019 ha partecipato al Serendipity Arts Festival di Goa; è tra gli ospiti del progetto artistico di comunità virtuale What’s Up, curato da Ruchika Wason Singh, Critical Dialogues Art Space, New Delhi. Le sue opere fanno parte delle collezioni dell’Hindu College, University of Delhi; Reserve Bank of India e Fica – The Foundation for Indian Contemporary Art.