Qualche anno fa Sam Garbarski, regista di origine tedesca allocato in Belgio, aveva divertito le platee di mezzo mondo con un film stravagante e spassoso come Irina Palm, protagonista una sublime Marianne Faithfull. Ora propone alla piazza la sua quarta regia Vijay and I, un racconto dagli echi pirandelliani. Will (Wilder, giusto per rievocare un altro mitteleuropeo) è un attore tedesco che lavora da tempo negli Stati uniti. Ha un discreto successo, ma è frustrato perché sognava Shakespeare e Broadway invece è l’idolo dei bambini per un programma tv dove interpreta, mascherato, un coniglio verde. Il giorno del suo quarantesimo compleanno è convinto che moglie, figlia e amici si siano dimenticati la ricorrenza.

Così, mentre gli altri sono nascosti per la festa a sorpresa, lui sale in macchina e se ne va, lontano da tutti. Solo che gli rubano l’auto e il ladro è coinvolto in un incidente che brucia tutto, corpi compresi. Will viene a saperlo dalla tv, mentre è ospite di Rad un amico indiano e all’improvviso decide di assistere al proprio funerale, camuffato da sikh. Eccolo quindi trasformato in Vijay Singh che si presenta come un vecchio amico del presunto defunto. Garbarski conosce i tempi della commedia, si affida poi a un attore di buon talento come Moritz Bleibtreu, capace di usare in maniera disinvolta l’inglese, sia con accento teutonico che indiano, e per il ruolo della moglie ha ritrovato Patricia Arquette, che il cinema mainstream sembra avere dimenticato, oltre a un cameo di Hannah Schygulla nel ruolo della mamma di Will.

Si avverte lo sguardo europeo sugli Stati uniti, spiati dal punto di vista degli immigrati, non quelli costretti all’attraversamento della frontiera al Sud, ma quelli destinati a ruoli socialmente più brillanti. Si scherza sulle figurine del baseball, sulle banche, si gioca sulla parole (sick, malato e il sikh indiano) ma la trovatina iniziale che il personaggio di Will trascina per tutto il film, e oltre, è troppo fragile per reggere il peso anche di una semplice commedia come questa. La voglia di ripartire da zero che spesso frulla nella zucca di ognuno di noi, qui è troppo vicina alla mascherata per assumere spessore e profondità. E soprattutto, escludendo l’amico Rad, nessuno dei protagonisti risulta simpatico, e questo impedisce al film di decollare. E affiora la nostalgia per la geniale invenzione di Irina, la nonna che aveva saputo davvero ricominciare da capo.