Cogliere le molteplici declinazioni del concetto di eredità, implica includervi i beni passati dalle generazioni precedenti, insieme ai comportamenti, ai valori, ai modi di pensare, tradotti in atti e azioni, che determinano le nostre esistenze, a volte in maniera drammatica. L’eredità è fatta di memoria, ovviamente, ma anche di oblii, in una grammatica del racconto possibile delle nostre vite, fra ciò che deve essere incluso e ciò che va cancellato: un testamento, a documentazione della volontà del testatore.

In Eredità, romanzo (appena tradotto da Margherita Podestà Heir per Fazi, pp. 374, € 18,50) Vigdis Hjorth, una delle più importanti scrittrici contemporanee della Norvegia, la cui opera sfida sistematicamente il confine tra finzione e realtà, esplora la frantumazione di una famiglia, la vergogna, i sensi di colpa, ponendo continui interrogativi su come possano coesistere fra parenti stretti punti di vista sul reale contrastanti, mentre è sempre presente lo spettro di qualcosa che sfiora l’indicibile.

Un testamento infelice
Protagonista Bergljot, drammaturga e critica teatrale, tre figli grandi, divorziata, vive da sola benché abbia un nuovo compagno. Dopo anni di analisi, convive con il suo passato, ma lontana dalla famiglia, che non ha mai voluto dare ascolto alla sua storia, finché il testamento dei genitori, che esclude lei e il fratello, la costringe a ricostruire i fatti, a ricordare nuovamente, a indagare il perché lei e il fratello abbiano subito sempre trattamenti diversi da quelli riservati alle altre due sorelle minori, e come mai entrambi abbiano dovuto rompere i rapporti con i genitori.

La loro storia è inconciliabile con quella della famiglia, che non fosse per lei e il fratello sarebbe sembrata «normale»: così le dice suo figlio.
Ricordi sfuggenti rivelano la terribile ambivalenza della relazione tra Bergljot e suo padre, ed è esemplare la scrittura di Vigdis Hjorth nel fare a meno di descrizioni scabrose, illuminando senza nominare, mentre mostra come il carnefice si leghi subdolamente alla sua vittima, come entrambi siano condannati, come l’abuso sessuale decida delle loro esistenze. Concreti, dolorosi, privati, i dettagli si elevano a paradigma intellettuale senza perciò cadere nella astrazione.

Oscillando tra passato e presente, tra tempi vicini e lontani, le continue interrogazioni di Bergljot si risolvono in una scrittura, spesso frammentata, dove si mescolano eventi a riflessioni a dialoghi a riferimenti letterari e filosofici, mentre si alternano le telefonate, i messaggi, le conversazioni.

L’urgenza di capire alimenta una tensione crescente fino a farsi ossessiva nella disperata elaborazione del trauma, improvvisamente chiaro e che dunque chiede, impellente, di venire condiviso, riconosciuto in quanto tale. Contrastanti punti di vista sollevano la questione di chi abbia il diritto di decidere cosa sia vero e cosa no, mentre dimostrano come credere nella storia dell’altro sia il frutto di una scelta: è questa, alla fin fine, la questione centrale del libro e del più ampio progetto letterario di Vigdis Hjorth, che scrive in una lingua diretta e pulita, sia quando la trama si addensa nelle reazioni di angoscia e di rabbia, sia nelle derive più astratte, quando ricorda passaggi di Kierkegaard o di Freud, o si interroga sulla questione della colpa.

Ogni parola trasmette il bisogno di fare ordine, e la ricerca della lingua idonea a dire ciò che confina con l’indicibile si avvicina a quella della psicoanalisi nell’associare liberamente le immagini e i pensieri che si affacciano alla mente.

Questioni di traduzione
Figure centrali dei drammi ibseniani ricorrono tra le pagine con i loro abbandoni, i loro spettri; altre volte il riferimento è alle analisi del filosofo norvegese Arne Johan Vetlesen, al fatto che le commissioni di verità e conciliazione richiedono sempre tanto sforzo sia alle vittime sia ai carnefici, e tutto questo viene eletto a parallelo con l’impossibile conciliazione con la famiglia. La visita a una mostra di Marina Abramovic, poi, si conclude con l’espressione «They could not stand my person because of what they had done to me», motivo che viene ripreso diverse volte tra le pagine del romanzo.

Purtroppo, la traduzione non rispetta la pulizia della lingua di Hjorth: perché, per esempio, il semplice «andare» deve sempre diventare «recarsi», e perché i personaggi «dichiarano» invece, più semplicemente, di «dire»? Disturba l’introduzione di termini che sanno di linguaggio burocratico proprio dove non hanno motivo di essere: «suddetto», «antecedente», o «interpellare». È dunque un problema di registro.

Perfino l’incipit del romanzo viene appesantito dalla traduzione: «mio padre è morto cinque mesi fa» è diventato «mio padre è mancato cinque mesi fa» e «in un momento opportuno o non opportuno» diventa «in un momento che potrebbe definirsi più o meno opportuno», e «penso che» diventa «personalmente ritengo che». Oltre a appesantire, la traduzione fa perdere l’opportunità di cogliere l’allusione alle prime parole dello Straniero di Camus, «Oggi la mamma è morta», a cui Vigdis Hjorth dichiara di essersi ispirata.
Anche la fluidità temporale che caratterizza il romanzo, nel suo muoversi tra mesi e anni senza la necessità di specificare esattamente il momento in cui qualcosa avviene, è interrotta nella traduzione italiana da continui inserimenti di «quando», «dopo aver», «fu allora che», «mentre», «in quel momento», cui si aggiunge il frequente inserimento dei trapassati, che non solo scandiscono ulteriormente un prima e un dopo volutamente non specificati nel testo originale, ma contribuisce a appesantire il tutto.
La trama c’è, la scrittura un po’ meno.