Certe epoche somigliano agli specchi di Archimede che gli antichi dicevano «ustori» perché attraverso di essi lo scienziato siracusano, se si vuol prestar fede agli storici alessandrini Zonara e Tzetze, fece convergere in un solo punto le molteplici forze solari col che appiccò l’incendio sulle navi del console Marcello. Di una stessa abilità dovrebbe parlarsi per quelle età che, come capitò ad Atene sotto Pericle o a Firenze durante il governo di Lorenzo de’ Medici, sembrarono concentrare in un solo luogo il vigore di tutte le intelligenze. Anche la fin de siècle ebbe la sua Atene, la sua Firenze e fu Vienna…Vienna 1900 Arte, architettura, design, arti applicate fotografia e grafica è oggi un catalogo, di oltre milleduecento immagini, curato da Christian Brandstätter, Daniela Gregori, Rainer Metzeger, edito da Thames & Hudson nel 2018 e prontamente tradotto da Electa (pp. 543, euro 90,00).
Parigi, certo, ebbe un ruolo non inferiore nello sviluppo della modernità ma il suo splendore era stato lungamente preparato, da Baudelaire, dagli impressionisti, da Zola, non ebbe perciò nulla di eclatante né dette l’impressione, come quello viennese, di un fiore perituro di agave, nato per sbocciare e morire assieme alla pianta che lo ha generato. La metafora floreale non paia peregrina per descrivere un’epoca che andava rivalutando l’arte dei giardini, purché non fossero quelli scarmigliati, con negligenza civettuola, dei romantici («Sull’onda di questa voga – scriveva in Inghilterra George Sitwell – seguirono follie peggiori di quelle che avevano suscitato la satira di Addison»), ma i quieti e ordinati giardini rinascimentali, ancor meglio se immaginari, come quello di Poliphilo.
Già, poiché molti degli interni disegnati a Vienna all’inizio del secolo dalla Weiner Werkstätte, la società fondata nel 1903 da Hoffmann e Moser sul modello dell’Art and Crafts, non furono naturalmente giardini reali ma horti conclusi, giardini dell’anima. L’immagine del fiore, del pampino o del viticcio è troppo familiare a chi abbia una conoscenza, anche superficiale, degli stili dell’epoca perché giovi sottolinearla. A Vienna come a Parigi aveva una matrice comune nelle stoffe di William Morris. Nel Sezessionstil, tuttavia, i motivi vegetali presero un carattere particolare. Apro una pagina dell’eccellente volume Ver Sacrum La rivista della Secessione viennese 1898-1903, curato da Valerio Terraroli (Skira, pp. 223, euro 55,00), la 33: trovo delle decorazioni floreali per libro di Olbrich stilizzate, elegantissime per il numero 7 della rivista; nella pagina successiva vi è una poesia di Rilke, per il numero 9, con motivi fitomorfi di Hoffmann ancora più depurati; e ancora alla pagina 52 è uno squisito pergolato di ortensie di Moser.
Questi motivi si trovano effettivamente anche nell’art nouveau ma con qualcosa di umido e di acquitrinoso che qui, nonostante l’ammirazione comune per l’arte giapponese, lascia il posto a un’ispirazione più geometrica, quasi metallica. Sicché, se le decorazioni di Gallé, di Guimard, di Majorelle paiono ispirarsi alla flessuosità delle piante acquatiche, i fiori di Hoffmann e di Moser si direbbero piuttosto rose d’argento come quella del cavaliere di Strauss. Come in poesia, così in arte il simbolismo viennese non condivise che marginalmente l’amore dei francesi e dei belgi per gli stagni, le foglie zuppe e marcescenti, le gore d’acque morte così familiari, invece, alla lirica di Verlaine, di Maeterlinck o di Rodenbach.
Guardiamo gli interni dell’epoca, riprodotti nel volume Electa: c’è la sala da pranzo di Palazzo Stoclet, ideata da Hoffmann, con i fregi klimtiani di intrecciati racemi che proseguono idealmente le venature dei marmi; c’è la sala, sempre da pranzo, di villa Sonja Knips con pavimenti e stucchi floreali; o ci sono, ancora, gli ambienti di vendita della stessa Weiner Werkstätte, decorati con viticci di steli e corolle. Dalle porcellane alle stoffe gli stessi motivi si combinano e si richiamano: foglie e fiori netti e stilizzati. Cosa si coltivava in questi giardini? Da una pagina all’altra di Vienna 1900 si succedono abiti che ripetono il motivo delle tappezzerie, stoffe che pare vogliano imitare il pattern dei mobili e geometrie che, non più limitandosi alle sedie e alle scrivanie, invadono fregi e quadri; in tutti questi stucchi, mosaici, porcellane, tavolini, porte, abiti, utensili, rilegature echeggia una stessa parola: la parola Io. Gli interni di Vienna erano allora i giardini del Sé.
Nel breve racconto autobiografico di Leopold Andrian, Il giardino della conoscenza, pubblicato nel 1895, si narrano le vicende di un bellissimo adolescente insoddisfatto, Erwin, che non riesce a pervenire alla conoscenza della realtà, come pure anelerebbe, perché in ogni immagine del mondo esterno non è capace di vedere altro che il riflesso di sé. Questa condizione spirituale si riflette negli ambienti dell’epoca, concepiti come un’unità di mobili, stucchi, quadri, porcellane e argenti nei quali doveva immillarsi, variamente sfrangiata, la personalità del committente. Un ritratto di Klimt era spesso il culmine di tali intérieures: il proprietario vi trovava l’apoteosi del suo Io avvolto in una laboriosa crisalide d’oro.
Loos, nel racconto A proposito di un povero ricco, ebbe gioco facile nel canzonare un immaginario cliente della Weiner Werkstätte il quale crede di avere una casa a misura del proprio spirito («portacenere, argenterie, interruttori della luce, tutto, tutto egli aveva previsto. E non si trattava di un intervento da comune architetto, no, perché in ogni ornamento era espressa l’individualità del padrone di casa») e, invece, finisce col trovarsi nell’8½ dell’architetto dal quale non può spostare un soprammobile, senza sollecitare la riprovazione del suo ideatore.
Eppure, nonostante l’ironia di Loos, è innegabile che la Gesamtkunstwerk secessionista abbia raggiunto vertici assoluti. Il libro di Skira, Ver Sacrum, raccoglie alcuni fra gli episodi più alti dell’arte grafica di ogni tempo. Cornici, fregi e illustrazioni inquadrano i testi della rivista con una perentorietà inusitata. Sono per lo più zincografie dei più grandi artisti dell’epoca, Klimt, Roller, Moser, Hoffmann, Olbrich, che si incidono sulla carta in linee semplici e nitide, come ricami di rami spogli su pallidi frontoni di pietra. Gli elementi diversi, il testo e l’incisione, formano, come negli interni creati dalla Weiner Werkstätte, un’unità insolubile. In un volume che raccoglie una varietà di documenti, architettonici, grafici, pittorici, fotografici, la «Jungwien» finisce col trovarsi tutta riunita in un ripetersi dei medesimi nomi.
Anche questa concentrazione, come quella degli specchi d’Archimede, culminò in un dramma di fiamme, quale non avrebbe potuto concepirlo nessuna mente latina, nemmeno quella lugubre e convulsa di un Lucano, giacché le bombe insegnarono agli uomini che anche la pietra, l’eterna pietra lisa lentamente dall’incessante lavoro dei secoli, poteva avere la stessa friabilità di una zolla di terra brulla. Le pietre delle quali erano fatte le case, le città, le memorie erano, come polvere, materia che cade. Ma nel 1900 Vienna non era di polvere ma di pietra e sulle sue facciate sfolgoravano i bei colori del suo celebre valzer Gold und Silber, oro e argento. Diviso in tre grandi sezioni (Pittura e grafica, Arti applicate e decorative, Architettura) a loro volta ripartite in più capitoli che si richiamano l’un l’altro, Vienna 1900 ha voluto presentare l’unità di un’epoca nella vita multiforme e solipsistica della sua arte.