I soldati del Rinascimento non erano certo stinchi di santo: quando Erasmo prese la penna per condannare le guerre che insanguinavano l’Europa ne tracciò un’immagine sinistra, la stessa che emergeva da una più ampia letteratura che bollava quanti praticavano il mestiere delle armi come uomini violenti e beoni, inclini alla rapina, alla lussuria e al gioco, votati alla bestemmia e alle pratiche superstiziose.

Più tardi sarebbe giunta la stagione delle guerre confessionali, che avrebbero opposto cattolici e protestanti sul suolo della Germania, delle Fiandre e della Francia, mescolando cruente stragi e appelli alla pietà.

E proprio al servizio della Corona dei Valois, che dopo il 1560 tentò di arginare la forza bellica dei potenti clan ugonotti, decise di arruolarsi un esponente della nobiltà italiana, apprezzato per il suo coraggio di soldato, che sarebbe incappato in una vicenda del tutto insolita per un leader militare, persino negli anni centrali del XVI secolo.

Si trattava di Gian Galeazzo Sanseverino, membro di una famiglia di spicco, con parentele illustri, che annoverò alcuni dissidenti religiosi sensibili al messaggio dei riformatori d’Oltralpe e a quello, più criptico, degli evangelisti francesi (Jacques Lefèvre d’Étaples, Margherita di Navarra) e di Juan de Valdés: l’eretico spagnolo, approdato a Napoli, che influenzò la spiritualità e gli indirizzi politici di artisti e letterate, teologi e predicatori, diplomatici e mercanti, vescovi e cardinali che tentarono di opporsi alla divisione della cristianità latina e al trionfo del partito più zelante all’interno della Curia romana nel corso del concilio di Trento.

Giorgio Vasari, Seconda notte della Strage,[object Object],di San Bartolomeo, 1573, Musei Vaticani, Sala Regia

Un ramo dei Sanseverino – quello di Gian Galeazzo – deteneva la signoria feudale di Colorno, sottoposta al ducato dei Farnese; e qui, in questa rocca padana, nella notte fra il 4 e il 5 dicembre 1570, il condottiero, reduce dagli scontri sul campo con le armate calviniste francesi, fu arrestato dall’Inquisizione di Parma, insieme ad alcuni suoi servitori, con l’accusa di essere eretico e fautore dei nemici della fede cattolica.

In Il condottiero eretico Gian Galeazzo Sanseverino prigioniero dell’Inquisizione (il Mulino «Biblioteca storica», pp. 222, € 18,00), Gigliola Fragnito – che ha già dedicato numerose ricerche ai Sanseverino e ai rapporti tra la Curia pontificia e la Francia – ricostruisce con finezza questa vicenda giudiziaria, tutt’altro che minore, collocandola in un contesto più ampio che vede da un lato la corte retta da Caterina de’ Medici, incline a trovare un compromesso – teologico e politico – con il fronte ugonotto (recente era la pace di Saint-Germain, che molto aveva concesso ai protestanti francesi); e dall’altro la Curia romana negli anni del papato intransigente di Pio V Ghislieri, ostile a ogni accordo con gli «eretici» e diffidente nei confronti dell’odiata regina-madre italiana e dei suoi latitudinari consiglieri politici (a partire da Michel de l’Hospital).

Come ci spiega l’autrice, il processo fu trasferito quasi subito a Roma, a dispetto delle proteste di Parigi; ma la Congregazione del Sant’Uffizio (una creatura di Paolo IV e dello stesso Ghislieri) fece fatica a trovare prove solide del dissenso religioso di Gian Galeazzo, al quale, nei lunghi mesi della causa, vennero imputate le frequentazioni di ugonotti e di eretici italiani riparati in Francia, il possesso di libri proibiti e la freddezza nei confronti dei sacramenti e dei riti. Le testimonianze a carico furono contraddittorie, le dicerie prevalsero sulle evidenze, e le domande poste dagli inquisitori non riguardarono tanto le sottigliezze teologiche circa la transustanziazione o la salvezza (poteva essere diversamente con un soldato?), quanto piuttosto il rispetto dei precetti cattolici: quello di confessarsi e di comunicarsi almeno una volta l’anno, a Pasqua; e quello di osservare i digiuni e le astinenze.

Sanseverino reagì bruscamente alle questioni poste dai giudici («non è professione mia» la religione, obiettò; «d’arme e d’amore si ragiona» tra i cavalieri: l’eco ariostesca è palese), e forse comprese che il primo obiettivo del clamoroso arresto non era certo quello di castigare un condottiero che, per di più, aveva militato sul fronte cattolico.

Lo scopo del processo – come sottolinea Fragnito – era anzitutto quello di estorcere informazioni sulla corte di Caterina, giudicata troppo incline alla nobiltà ugonotta e alla sensibilità evangelica; quello di cavare notizie sugli esuli religionis causa e i tanti italiani riparati in Francia (tra loro divisi da rancori e appartenenze regionali); quello di lanciare un segnale contro la politica di pacificazione tesa a evitare la dissoluzione di un regno in preda alla guerra intestina e ai massacri; e forse quello di rivendicare il potere dei papi sulla Parma farnesiana.

Ma la corda non poteva essere tirata troppo, pena il riemergere di quella tradizione gallicana che alimentava i sentimenti anti-romani della Francia; e per di più si correva il pericolo di uno scisma a Parigi, dopo avere perso molti territori dell’Impero e l’Inghilterra. Lo comprese financo un uomo feroce come Pio V, al punto da porsi quasi in conflitto con la sua creatura, il Sant’Uffizio, che si accaniva su Gian Galeazzo senza tenere conto né del contesto né delle protezioni francesi e italiane del condottiero.

Alla fine, nella tarda estate del 1571, mentre urgevano i preparativi per la Lega anti-ottomana che si sarebbe scontrata con gli infedeli nelle acque di Lepanto (l’appoggio della Francia era indispensabile), il processo si chiuse adottando una procedura molto rara nei processi d’Inquisizione, specie in età moderna e quando l’imputato era un laico, sia pure nobile, e non un chierico: a Gian Galeazzo fu chiesto di giurare circa la propria innocenza per cancellare ogni sospetto di colpa, e a quel punto fu rilasciato (sarebbe morto in Francia nel 1575).

Il libro offre un potente spaccato della storia religiosa e politica dell’Europa del Cinquecento e uno squarcio sui comportamenti della nobiltà italiana del tardo Rinascimento e sui favori di cui poteva godere quella «razza padrona» persino nella stagione della Controriforma.

Inoltre Fragnito, come in altri suoi lavori recenti, poco credendo alla categoria di Riforma cattolica e al mito dell’età tridentina, con piglio burckhardtiano getta luce sui conflitti, gli interessi, le reti di clientela e i peccati, grandi e piccoli, delle famiglie più potenti della Penisola, legate a doppio filo alla Chiesa; al punto da introdurre in questa storia un secondo e un terzo protagonista: ovvero Giovan Battista Borromeo, consorte di Giulia (una nipote di Sanseverino), e il suo celebre zio Carlo, arcivescovo di Milano, modello di pastore tridentino in odore di santità. Chiamato a testimoniare, Giovan Battista tentò ambiguamente di profittare del processo contro Gian Galeazzo per strappargli il feudo di Colorno e si rivelerà un marito tanto violento da accoltellare la moglie durante un litigio alla presenza della figlia, nel 1577.

Uomo di costumi quasi bestiali, secondo la fama che lo circondava, riparato in Svizzera e processato in contumacia da un tribunale milanese, che così intese mandare un segnale anche all’arcivescovo, troppo conflittuale con il potere politico, Giovan Battista si rivolse allo zio cardinale per ottenere indulgenza e protezione, e la fece franca, nonostante l’impegno della madre di Giulia, che rifiutò di concedergli il perdono. È la storia di un femminicidio nobiliare nell’Italia del tardo Rinascimento; il lato oscuro di un’età, quella tridentina, di cui la storiografia tende spesso a dimenticare gli aspetti più cupi adagiandosi su una narrazione oleografica fatta di santi e fedeli disciplinati.