La tredicesima edizione del Pacific Meridian International Film Festival si è conclusa venerdì scorso con una serata al teatro dell’opera di Vladivostok. Quattro giurie hanno consegnato un totale di dieci premi; degli spettacoli di danza e di canto hanno ricordato la storia della fondazione della città e dell’eroica conquista dell’Est. Alla fine, una campana dorata è entrata in scena, virilmente presentata dalle mani di un ufficiale della marina militare. La madrina del festival (che è anche la moglie del governatore regionale) e il direttore del teatro Gorki (che è anche il direttore delegato del festival) hanno impugnato congiuntamente il batacchio e suggellato la chiusura con uno vigoroso scampanellio.

Fino qui, nulla di nuovo rispetto a quanto scrivevamo l’anno passato: un poco di folklore asiatico, un pizzico di propaganda nazionale, molto orgoglio locale. Invece, un cambiamento c’è stato. La crisi è passata anche per questa regione della Russia, che pure è una delle più ricche del paese e per questo mal tollera il potere centrale (non è raro di ascoltare diretti contro Mosca discorsi che, mutatis mutandis, ricordano i vecchi slogan leghisti su Roma ladrona). Rispetto all’anno passato, il governo regionale ha dimezzato il budget del festival. Il Pacific si è adattato e il risultato è un netto miglioramento. Contro ogni attesa, i soldi in meno sono stati sottratti a quella che un tempo era la priorità: invitare una o due star hollywoodiane. A tutto vantaggio del programma cinematografico sul quale si sono concentrati tutti gli sforzi. Questo è pensato con due criteri. Da un lato, riunire un best of di film d’autore e indipendenti internazionali (ripresi per lo più ai programmi di Cannes, Berlino e Rotterdam) che con ogni probabilità non verranno mai distribuiti in sala. Dall’altro, scovare delle prime internazionali di film russi o dell’Asia sud orientale. Ad entrambi, la risposta del pubblico è stata molto positiva.                                       

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Il film più notevole, il più acclamato e il più premiato, viene dall’arcipelago filippino, Shadow Behind the Moon. A realizzarlo è Jun Robles Lana. Siamo agli inizi degli anni ’90, nel paese infuria la guerra civile che oppone i miliziani governativi ai ribelli comunisti. L’azione si svolge in una capanna dove vive una coppia di sfollati. La donna prepara la cena mentre il marito gioca a carte con un soldato della milizia. Si tratta del genere di film dove i personaggi hanno un gioco doppio o triplo e i ruoli – il ribelle, l’innamorato, il cinico, il traditore – sono redistribuiti continuamente. Il più delle volte, la sensazione è che si tratta solo di un gioco, dove a vincere sono gli attori e a perdere è quasi sempre il film. Ora, Lana è abile a combinare, dal primo istante, la geometria amorosa a quella politica. Il successo del film attiene alla scelta formale, un bianco e nero girato con un vecchio VHS – da un lato l’aria di una soap opera tropicale, dall’altro l’impressione di un documento ritrovato, e quindi a metà tra Santa Barbara e Cloverfield. Non è un esercizio vuoto perché, riproducendo i codici estetici dell’epoca, rivela l’assoluto ordinario, domestico, intimo di una guerra civile nella forma stessa della televisione che quella realtà si occupava di occultare. Il pubblico di Vladivostok lo ha molto amato e i premi non sono mancati: miglior film asiatico, premio della giuria Fipresci, premio per la migliore attrice.

Un’alta pellicola molto acclamata è anch’èssa un huis clos (sebbene all’aperto): Nuits blanches sur la jetée di Paul Vecchiali. Da segnalare anche due lungometraggi in concorso. Il primo, colombiano, è Embrace of the Serpent, la storia di un doppio tentativo di esplorare l’interno della foresta pluviale. Sul film pesano le ombre di Fitzcarraldo e di Aguirre, sebbene il progetto sia in effetti opposto: mostrare non tanto la follia della conquista violenta quanto lo scacco della semplice scoperta pacifica. Il secondo, cinese, è K di Darhad Erdenibulag e Emyr ap Richard. Prodotto da Jia Zhang-ke, adatta il romanzo di Kafka Il Castello trasportando l’agrimensore nel bel mezzo della Mongolia. Lo spaesamento funziona nella misura in cui l’analisi kafkiana del rapporto dell’uomo con la legge sembra pensata per descrivere la burocrazia cinese contemporanea.
Il Pacific da molta importanza ai cortometraggi. Quello che ci è rimasto più impresso si chiama Sunset e racconta la storia di una donna che entra a far parte di un giro d’affari infame (il subaffitto di case in vendita). Una pratica che, a quanto pare, va per la maggiore in Russia e che se la crisi continua e se il film avrà successo, prenderà piede anche altrove. Il nome c’è già: fare sunset