«Eravamo un gruppo di idealisti». Così Antonio Vidal, pittore squisito attivo sulla scena habanera dagli anni cinquanta, ha voluto descrivere – con poco anticipo sulla morte, che lo ha colto nel luglio 2013 – l’esperienza destinata a segnare la sua giovinezza e il travagliato cammino dell’isola verso la costruzione di un’immagine metropolitana, cosmopolita, al centro del rivoluzionato scacchiere politico disposto dall’improvviso intervento statunitense nel conflitto globale contro il nazi-fascismo.
Pensiamo cioè alla battaglia eroica condotta dal collettivo de Los Once, nell’arco di tempo ristretto in cui spesso si risolvono le solidarietà intellettuali, con l’intento di tradurre le mitologie afro-cubaniste cullate dalla vanguardia autoctona fra i Trenta e i Quaranta nel lessico universale, puro e astratto, propagatosi dal dopoguerra attraverso il mondo occidentale (e non soltanto). Si trattò di una compagnia di «neanche trentenni», secondo la definizione di Mario Carreño, il cui debutto in quanto ‘scuola’ deve essere ricondotto all’ufficialissimo VI Salón nacional de pintura y escultura, tenutosi nel gennaio 1953, e alla mostra inaugurale alla Galleria La Rampa, organizzata nel marzo successivo; «un incontro generazionale», sempre nelle parole di Vidal, «ci riunimmo perché, ancora ragazzi, desideravamo rompere con quanto era venuto prima di noi».
In realtà – nutriti sull’esempio di nomi quali Enrique Riverón o Julio Girona, in mente il modello assoluto, il look impeccabile di Wifredo Lam – i partecipanti a quell’avventura polifonica e disordinata (Guido Llinás e Agustin Cárdenas, Raúl Martínez e lo stesso Vidal, fra gli altri) godettero di un clima propizio allo svecchiamento culturale, propenso a riconoscere in una vague corrente, pur ‘di rottura’ in termini di ambizioni estetiche e risultati formali, la piana continuità con lo sciovinismo figurativo promosso dall’Escuela de la Habana, fin dalla sua incubazione generativa ricondotta – per via critica e in chiave ideologica – all’Exposición de arte nuevo del 1927. Non sfuggirà come il 1953 vide l’esplodere dei fuochi rivoluzionari volti a minare il governo gangsteristico del dittatore Fulgencio Batitsa, quelli che – dopo l’assalto alla caserma della Moncada – avrebbero condotto alla nascita del Movimento del 26 luglio, consolidatosi nell’esilio scontato da Fidel Castro ma allevatosi sulle asserzioni dell’indipendentismo isolano del XIX e del XX secolo: tale circostanza offre infatti un sostrato indispensabile per le iniziative de Los Once, i quali con l’Exposición de plástica contemporanea del 1954 – un evento di rottura rispetto all’importazione a L’Avana della biennale d’arte proveniente da Madrid, sotto gli auspici del Caudillo Francisco Franco – avevano scelto a proprio motto il detto celebre di uno dei padri del progetto d’autonomia dal giogo coloniale, e cioè l’intellettuale romantico José Martí: «Una revolución de formas es una revolución de esenciales».
Alla luce di questa storia, apparirà un cortocircuito significativo che il cubo modernista del Museo nacional de Bellas Artes – sede prescelta nel ’54 per ospitare la controversa rassegna d’importazione spagnola – abbia promosso recentemente un’esposizione dedicata a Vidal, ricorrendo ai pezzi delle sue ricchissime raccolte, e l’abbia prolungata oltre la data di chiusura prevista per associare la celebrazione di una presenza storica del milieu artistico della capitale al vernissage di un appuntamento prestigioso quanto la Biennale de La Habana, la cui tredicesima edizione si è avviata il 12 aprile passato.
È certo infatti che Vidal, la cui prolifica produzione è stata avvantaggiata da un’esistenza longeva, sia un protagonista riconosciuto del canone della modernità latino-americana, sostenuto da recenti aperture internazionali (la sua monografica a Kassel nel 2017 per Documenta 14), capaci di rinverdirne i successi oltreconfine già toccatigli in sorte lungo la stagione della sua più intensa creatività, ad esempio con la mostra del 1955 alla Galería Sudamericana di New York; non è però meno vero che il linguaggio ermetico, sofisticato della sua pittura ha riattirato un’attenzione filologica solo nel corso degli ultimi vent’anni da quando si decise, nel 1999, di riconoscergli il Premio nacional de artes plásticas, sollecitando una sua accoglienza in grande stile nelle sale del Museo nacional, dapprima nel 2003 (con un omaggio-anniversario per il debutto de Los Once), poi nel 2008 e ancora nel 2010.
Nata come un esperimento progressivo, in linea appunto con i fermenti contestatori del castrismo, l’astrazione cubana dei primi anni cinquanta visse una controversa maturità nel confronto con i precipitati eventi che caratterizzarono la storia patria a cominciare dal ’56-’58, dalla guerriglia nella Sierra Maestra alla Caduta di Batista. Avendo infatti giocato il ruolo di un contraltare libertario, nei riguardi della sospensione democratica agita dal generale-dittatore, sia con polemiche scelte espositive sia nell’opzione di un codice figurativo di esistenziale, solipsistica autarchia (sulla scia di Wilhelm Worringer), gli Once si trovarono poi impigliati in uno scottante dialogo con la scena artistica statunitense, mentre il regime guardava proprio a Washington per un appoggio indispensabile al suo potere illegittimo: il favore rivolto da Vidal come da Llinás (e da altri aderenti) verso un espressionismo gestuale, d’après Scuola di New York, prediletto rispetto ad altri codici novecenteschi dal concretismo all’informale, incoraggiò pertanto un’interpretazione ‘imperialista’ della loro azione che più difficilmente – nonostante i tentativi espliciti in questo senso – si lasciava ricondurre a una chiave ampiamente ‘panamericana’.
Tali ambiguità, portarono alcuni a intraprendere vie alternative: è il caso, fra gli altri, di Martínez (sul quale ci siamo dilungati in queste pagine per una mostra del 2018; v. «Alias-D» 25-02-2018), concentratosi col nuovo decennio su un uso critico, painterly di un immaginario pop e seriale.
Vidal ha preferito ritirarsi, gradualmente, in una solitudine riflessiva, radicata nelle strade de L’Avana vecchia e fedele, al contrario, alla scelta coerente di un gergo non figurativo: tuttavia, un’occasione – anche modesta – come quella che è stata offerta oggi al visitatore serve a screziare un percorso solo all’apparenza granitico, in una certa misura problematizzando la stessa storiografia cristallizzatasi attorno al pittore e ai suoi compagni di strada. Nel ripercorrerne infatti la parabola, dalle prove geometriche e lineari datate 1952, per passare alle testimonianze di astrattismo lirico, tessute con tocchi traslucidi sul campione delle griglie hofmanniane, approdando ai collages e ai tentativi materici, echi del percorso di un Burri, concludendo con la sua ricca oeuvre incisoria e col catalogo di gentili arabeschi in metallo, aggregati scultorei messi insieme dagli anni ottanta, è soprattutto una coltivata ansia sperimentale a rendersi palpabile, aperta a influssi differenti e a influenze allogene, estranea quindi all’ortodossia delle dichiarazioni programmatiche. Una ricerca sommessa che evidenzia un dato diverso, la fiducia di Vidal nell’importanza del colore, come elemento d’equilibrio, e nell’azione del pennello in quanto strumento di controllo dell’intera composizione: gli attributi di un maestro ‘inattuale’, di un calligrafo paziente che, nella storia (e attraverso di essa), sta vedendo le proprie ragioni riconosciute.