Victor Orbán è un problema da tempo. Ma nell’avvicinarsi delle elezioni europee di maggio comincia a scottare oltre ogni limite. Aldilà dei dodici partiti di nove paesi europei che ne chiedono l’espulsione o la sospensione dal Partito popolare europeo, la sua permanenza nella formazione che raggruppa i centristi e le destre moderate si è fatta imbarazzante per tutti. Non solo per la nuova guida della Cdu tedesca Kramp Karrenbauer, ma perfino per il leader bavarese Soeder, il cui predecessore Horst Seehofer era stato uno dei principali sponsor occidentali dell’uomo forte di Budapest in polemica con il governo di Angela Merkel.

LA PERMANENZA di Orbán nel Ppe non lo ha per nulla addomesticato, né gli ha impedito di continuare a sparare a zero sulle istituzioni europee e sugli esponenti di punta del gruppo parlamentare a cui è affiliato e da cui non intende in nessun modo distaccarsi, perdendone così la protezione nei confronti delle istituzioni dell’Unione. Dalla furibonda campagna contro Jean Claude Juncker a quella annunciata contro Frans Timmermans, candidato di punta del Pse, entrambi associati al demone per eccellenza del «complotto cosmopolita», George Soros.

Alla prudenza dei conservatori europeisti (almeno fino a dove questo «credo» non ostacolava le «priorità nazionali») e soprattutto di quelli tedeschi, sempre attenti a calcoli elettorali e interessi economici, Orbán rispondeva sistematicamente senza un minimo di tatto, sbandierando la sua visione letteralmente reazionaria dell’identità europea, ben oltre la linea dura contro l’immigrazione. Tenersi in casa un alleato che è al tempo stesso un avversario dichiarato non è agevole per nessuno.

MA ORA CHE la posta in gioco rischia di essere il progressivo indebolimento del confine tra centrodestra e formazioni nazionaliste più o meno radicali la questione ungherese diventa esplosiva. Come è possibile tenere insieme il governo di Budapest e quello di Macron? La poetica democratico-europeista del presidente francese e la dottrina della «democrazia illiberale»? La schermaglia dei rimbrotti e degli ammonimenti non può durare molto a lungo. Con il rischio, quasi una certezza, che il partito di Orbán possa agire come quinta colonna del fronte nazionalista all’interno del Ppe e lavorare all’avvicinamento tra queste formazioni. L’esito della vicenda potrà dirci qualcosa, anche se non di definitivo, sulla tenuta di un confine sempre più fragile e permeabile.

SE DAVVERO l’Unione europea non è solo un mercato, un dispositivo di sicurezza, una potenza finanziaria, come recita enfaticamente il manifesto di Macron, allora è davvero difficile capire come le attuali politiche dei governi ungheresi e polacchi possano trovarvi posto. «Democrazia illiberale» non è un’espressione scelta a caso. Assicura, contrariamente ad altre formulazioni che possono alludere a una rotta di collisione con il liberismo economico, che le regole del mercato non saranno scalfite neanche nei loro aspetti più iniqui e disastrosi, ma che non hanno bisogno alcuno di accompagnarsi allo stato di diritto, alla divisione dei poteri, alla libertà di informazione e altri «orpelli» di cui si fregia la democrazia liberale.

Del resto, la dottrina predicata dagli Orbán e dai Kaczynski non attribuisce lo sfruttamento e il disagio sociale a un sistema economico e alle gerarchie che lo governano, ma a fantasmatici complotti cosmopoliti che perseguirebbero un oscuro (e inspiegabile) disegno di «sostituzione etnica» della popolazione europea. Spauracchio che, per quanto strampalato, trova consistente eco un po’ ovunque nel Vecchio continente.

SE LA SECONDA parte del ragionamento (si fa per dire) fa inorridire i democratici liberali, l’innocenza del mercato è invece pienamente condivisa. Ragion per cui l’assicurazione della sua messa in sicurezza a Budapest come a Varsavia è stata finora sufficiente a tenere a freno il fervore democratico dei principali governi europei e a impedire misure incisive.

SULL’ALTRO versante, l’incapacità della governance europea e dei singoli governi di contrastare impoverimento e diseguaglianze, di ridurre l’impatto delle obbligazioni finanziarie sulle condizioni di vita dei cittadini e l’estensione senza argini della proprietà privata ha contribuito a screditare i «grandi principi». Insinuando in molti ( e non solo a destra) l’idea che diritti e protezione sociale non solo non erano garantiti dallo stato di diritto, ma che non avrebbero potuto avere corso se non attraverso un esercizio autoritario e accentratore del potere politico.

I governi dell’Est europeo si sono ampiamente avvalsi di questo stato d’animo all’interno dei rispettivi paesi, così come del credo liberista nei confronti dell’Unione. Detti o taciuti, sono questi i nodi che verranno al pettine nel braccio di ferro tra Victor Orbán e il partito popolare. E il rapporto tra il centrismo europeo e i partiti nazionalisti è uno dei temi più spinosi degli equilibri europei che si determineranno dopo le elezioni del prossimo maggio.