«Il giorno dell’occupazione mi sono messa a piangere. Avevo capito che se non fosse durata sarei finita per strada: non avevo un tetto, né un modo per garantirlo ai miei figli». Alicia ha 53 anni, è nata in Ecuador e vive in Italia dal 2002. Dopo un lungo periodo ad Acilia, con due figli e una nipote a carico, non è più riuscita a pagare l’affitto: il marito si era ammalato gravemente e i suoi lavori precari di badante e colf non le permettevano di arrivare a fine mese. Il 6 aprile 2013, insieme a centinaia di persone, ha aperto i cancelli di un palazzo vuoto in viale del Caravaggio 107, nel quartiere romano di Tor Marancia, per trasformarlo in una casa.

Era il secondo appuntamento dello «Tsunami tour», nome che faceva il verso ai comizi che Beppe Grillo teneva in giro per l’Italia. Il primo atto era stato il 6 dicembre dell’anno prima. In quattro mesi nella capitale furono occupati 19 edifici vuoti. Tra questi, il centro sociale Communia, le occupazioni abitative studentesche Alexis, Degage e Mushrooms e quelle dei movimenti per il diritto all’abitare. Solo nella prima tappa presero casa circa 3mila persone, rispondendo dal basso all’assenza di politiche di edilizia popolare e alla mancanza di strumenti di welfare. «Se stai pagando il prezzo di una crisi che certamente non hai contribuito a generare e la tua vita sta diventando un incubo, non ci dormire sopra, vieni con noi, riprenditi ciò che ti spetta, occupa la città!», recitava il comunicato unitario di tutti i movimenti che avevano partecipato alle azioni di forza.

Dopo quelle due grandi ondate di occupazioni, la situazione nella capitale è cambiata drasticamente e da allora si contano quasi solo sgomberi. Come quelli che adesso minacciano 22 realtà, tra occupazioni abitative e centri sociali. Nomi e indirizzi compaiono in una lista trapelata intorno alla metà di aprile scorso. Il documento della prefettura di Roma è stato presto ribattezzato «circolare Salvini» e ha già prodotto delle conseguenze. Il 15 luglio, nel quartiere di Primavalle, blindati e agenti hanno accerchiato l’occupazione di via Cardinal Capranica. Dopo ore di resistenza sui tetti e nelle strade circa 300 persone sono state sgomberate, tre sono finite in arresto e altrettante hanno rimediato una denuncia. Viale del Caravaggio è il prossimo obiettivo.

L’ingresso dell’occupazione, foto di Costanza Fraia

DENTRO L’OCCUPAZIONE

Guardando da fuori il complesso edilizio, la prima cosa che colpisce è la perfetta simmetria tra i due edifici che lo compongono. Due lunghi parallelepipedi lanciati in avanti come vagoni di un treno, con facciate e lati composti da quadrati di vetro, verdi o trasparenti. Nel mezzo, un cancello di ferro battuto disegna una mezzaluna dolce e nasconde il cortile dal cui fondo emerge una canna fumaria. Gli striscioni appesi fuori illustrano la situazione anche al passante distratto: «Legittima difesa con ogni mezzo necessario», «Porto dell’accoglienza». Ci sono poi due manifesti. Uno è tutto nero con la Medusa del Caravaggio al centro. Sull’altro c’è la foto di un bambino sgomberato a Primavalle con i libri in mano e, intorno, le parole di Simone, il 15enne di Torre Maura che ha tenuto testa ai fascisti dicendo: «Nun me sta bene che no».

«Qui ho imparato tante cose: a crescere come persona, a essere solidale, a valorizzare la vita e guardarla in modo diverso – continua Alicia – Non è facile trovarsi in un paese straniero, capita di sentirsi soli. In questo palazzo, invece, siamo diventati una grande famiglia. Ci aiutiamo a vicenda, ci sosteniamo. Per esempio, le mamme che non lavorano tengono i bambini a quelle che hanno un impiego. Facciamo insieme i lavori di manutenzione. Ci scambiamo consigli e dritte. Adesso ogni volta che entro mi viene da piangere, perché sento che la mia casa se ne sta andando. Guarda cosa abbiamo dovuto fare…». Il palmo di Alicia si muove da sinistra a destra, percorrendo un semicerchio che indica il panorama circostante.

Carrelli di ferro e plastica trasportano grandi oggetti di legno, sedie, specchi, elettrodomestici rotti verso il cancello di ingresso, per rinforzare le barricate. Mattoni e sacchi di cemento si spostano da una parte all’altra del cortile. Tutte le porte, dentro e fuori l’edificio, sono rinforzate con pannelli e tubi di ferro saldati. I rumori di sottofondo sono quelli metallici di un cantiere: il disco della smerigliatrice che stride, la testa del martello che sbatte, il tonfo dei mattoni. Si sente l’odore dolce del ferro tagliato e quello del tufo. Una ventina di uomini si danno da fare. Accenti di genti diverse venute dall’est e dal sud si mischiano a frasi in romanaccio. Tutti lavorano insieme per costruire la difesa di quei due palazzi che furono uffici e sono diventati case.

Nel cortile fervono i lavori per l’autodifesa, foto di Costanza Fraia

In viale del Caravaggio 107 vivono circa 140 nuclei familiari, 380 persone, tra cui una settantina di minori. C’è chi è nato in Sud America e chi in Africa, chi viene dall’Europa dell’Est e chi soltanto da qualche strada più in là. Una piccola Torre di Babele che però funziona. «Non dico che non si litiga, mica è facile vivere in tanti e con culture e abitudini così diverse – racconta Anna Sabatini, romana – però qui c’è sempre un confronto diretto. Le decisioni le prendiamo in assemblea, quindi qualsiasi cosa viene discussa e deve andare bene a tutti quanti. Alla fine i problemi sono quasi quelli di un normale condominio, nonostante tutto. Anche con il quartiere abbiamo ottimi rapporti: all’inizio vedendo un’occupazione così grande qualcuno si è stranito, ma poi hanno capito che nessuno crea problemi».

«Le persone che abitano in quell’occupazione sono parte della nostra comunità territoriale – conferma il presidente dell’VIII municipio, Amedeo Ciaccheri – Nelle ultime settimane ho ricevuto tantissimi attestati di preoccupazione da parte di insegnanti di scuole e polisportive frequentate dai ragazzi di viale del Caravaggio. Mi hanno scritto delle lettere per chiedermi di fare pressione sul Comune e sulla Regione affinché vengano messi in campo tutti gli strumenti necessari a tutelare una componente radicata del nostro territorio».

Anna Sabatini, occupante di viale del Caravaggio, foto di Costanza Fraia

 

IL DIRITTO DELLA PROPRIETÀ

Senza azioni concrete da parte delle istituzioni si rischia di vedere a Tor Marancia una replica di quello che è accaduto tre settimane fa a Primavalle. E qui i toni, visto il precedente, potrebbero alzarsi ancora di più. Il ministero dell’Interno, attraverso la prefettura, vuole cacciare gli occupanti perché la proprietà ha vinto una causa e chiesto i danni allo Stato per il mancato sgombero.

«Quod non fecerunt barbari, fecerunt Armellini» ironizzava qualcuno riferendosi al grande costruttore Renato Armellini: una vita tra cemento, accuse di abusi edilizi ed evasione fiscale e poi condoni. Tra i 1.243 immobili che secondo la Guardia di Finanza appartenevano nel 2014 alla figlia Angiolina c’è anche quello in questione. Quel conteggio era stato fatto per contestare all’immobiliarista un’evasione fiscale di circa 2 miliardi di euro tra Ici e Imu non versati. Lei negò di essere così ricca. Nel 2016 fu l’Agenzia delle entrate a dimostrare il mancato pagamento di circa 50 milioni di euro di tasse: 36 li avrebbe restituiti al fisco.

La famiglia Armellini, attraverso la Moreno Estate, è anche proprietaria delle celebri «case di sabbia» (o di «ricotta») di Ostia. Nonostante le condizioni strutturali e il rischio crollo, il Comune di Roma ha pagato per anni alla proprietà affitti di assegnatari di case popolari. Dopo la vicenda del 2014, però, il sindaco Marino si rifiutò di continuare a farlo e decise di rescindere il contratto, senza allontanare gli inquilini. Così il 12 novembre 2018 il Tar del Lazio ha stabilito un risarcimento per 3 milioni di euro, oltre a 18 già riconosciuti precedentemente, e lo sgombero entro 90 giorni. Per evitarlo la giunta 5 Stelle ha avviato le procedure per l’acquisto del complesso in cui vivono oltre mille famiglie.

Una delle stanza del palazzo occupato, foto di Costanza Fraia

«Gli Armellini hanno fatto enormi profitti grazie all’affitto di edifici di loro proprietà alle istituzioni – afferma Luca Fagiano, del Coordinamento cittadino di lotta per la casa – Tra questi il palazzo di viale del Caravaggio, che ha ospitato vari assessorati, tra cui quello alla casa, e che è in cima alla lista degli sgomberi grazie alle pressioni costanti di quella potente famiglia. Il fatto che chi ha arrecato tanti danni alle casse pubbliche venga premiato in questo modo ci dice da che parte pende la bilancia. Gli interessi che contano non sono mai quelli di chi ha bisogno di una casa».

Intorno agli abitanti dell’occupazione di Tor Marancia si sono stretti i movimenti per il diritto all’abitare, i centri sociali e tante associazioni del territorio e della città. Mercoledì scorso si è svolta un’assemblea a cui hanno partecipato oltre 200 persone e che ha visto l’intervento di numerose realtà sociali, come associazioni e sindacati di base, e alcuni rappresentanti istituzionali, tra cui la consigliera regionale Marta Bonafoni, il consigliere comunale Stefano Fassina e l’assessora alla politiche sociali dell’VIII municipio Alessandra Aluigi.

La mobilitazione delle ultime settimane ha strappato un tavolo che si riunirà il prossimo 26 agosto. «Se Comune e Regione si presenteranno a mani vuote avranno firmato lo sgombero, perché il giorno dopo si vedrà in Prefettura il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica che darà il via alle operazioni – continua Fagiano – Se invece verranno presentate delle soluzioni concrete si potrà definire uno scenario diverso. Dall’assemblea dell’altro giorno è venuta fuori la richiesta di incontro al presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. La Regione è l’istituzione su cui si reggeva il piano per l’emergenza abitativa e dispone di un patrimonio immobiliare che potrebbe essere messo a disposizione. Al Comune, invece, abbiamo proposto di fare un bando speciale per risolvere questa singola questione, magari aprendo la strada anche a quelle che saranno affrontate successivamente».

«La Regione sarà al tavolo – afferma la consigliera Bonafoni – Attendiamo per quella data soluzioni concrete da parte del Comune, sperando che non si ripetano le proposte emergenziali, rivelatesi poi del tutto aleatorie, dello sgombero di Primavalle. Siamo pronti a tornare in soccorso di Roma Capitale, eventualmente anche reperendo nuovi alloggi non Erp. Ma due cose sono necessarie: che l’amministrazione Raggi faccia la propria parte e che si apra una vertenza col governo per mobilitare risorse nazionali per l’emergenza abitativa di Roma. Di certo c’è una cosa: con la crisi di governo in corso e il caos istituzionale che si è creato sarebbe auspicabile una moratoria immediata degli sgomberi».

La giunta Raggi, intanto, si sta muovendo per approvare una delibera che garantisca un buono casa da 500 euro per quattro anni alle famiglie in condizioni di fragilità. Da questa misura sarebbero però esclusi single e famiglie senza figli. Il Comune erogherebbe il bonus coadiuvando i soggetti nella ricerca di alloggi da affittare da privati, nel tentativo di mantenere la continuità territoriale.

I passeggini dei piccoli abitanti dell’occupazione, foto di Costanza Fraia

UN PROBLEMA STRUTTURALE

Secondo i dati di Comune e Prefettura nella capitale sono 80 gli edifici occupati a scopo abitativo. In gran parte di proprietà pubblica o parapubblica, costituiscono un tetto per circa 3mila famiglie. In totale oltre 11mila persone. «Più che una situazione di emergenza si tratta di un problema strutturale che nessuna amministrazione comunale e nessun governo hanno mai voluto affrontare in maniera seria – dice Massimo Pasquini, segretario nazionale dell’Unione Inquilini – Questa vasta precarietà ha ormai raggiuto livelli insostenibili a causa della mancanza di politiche abitative. Le occupazioni sono solo la punta dell’iceberg. A Roma ogni anno vengono eseguite tra 5 e 6mila sentenze di sfratto, la metà con l’utilizzo della forza pubblica. Secondo i dati del ministero dell’Interno, l’85% sono per morosità: le persone non riescono a pagare l’affitto».

Per il sindacato degli inquilini, nella capitale servirebbero almeno 10mila case popolari aggiuntive, da recuperare attraverso il patrimonio esistente inutilizzato, sia pubblico che privato. «Solo così – continua Pasquini – si può mettere fine a una situazione di crisi che si autoalimenta e costituisce anche un aggravio per le casse pubbliche. Pensiamo ai 28 milioni di euro spesi ogni anno per gli affitti delle 1.200 famiglie che vivono nei residence. Anche il buono casa prospettato dalla sindaca Raggi per le persone sgomberate a Cardinal Capranica o a rischio sgombero nelle altre occupazioni è una misura miope e inutilmente costosa. Potremmo fare molto di più avviando un vasto piano di recupero e autorecupero degli immobili inutilizzati, che creerebbe un circuito di economia circolare a favore di diversi attori e darebbe una risposta definitiva al problema».

Il 30 luglio scorso sulle pagine del manifesto gli urbanisti Paolo Berdini e Rossella Marchini hanno proposto quattro mosse praticabili da subito «per dare una casa a chi non ce l’ha». Tra queste l’utilizzo dei 194 milioni di euro incredibilmente bloccati da anni alla Regione Lazio. Fondi paralizzati da un conflitto tra la giunta regionale e quella Capitolina, che per un cieco legalitarismo non vuole riconoscere alcun diritto alle persone che invece di attendere l’assegnazione di una casa se la sono presa con la lotta. Con quei soldi, scrivono gli autori, si potrebbero costruire almeno 2mila alloggi.

Interno di una stanza comune al secondo piano, foto di Costanza Fraia

LE RICHIESTE DEGLI ABITANTI DI VIALE DEL CARAVAGGIO

Il corridoio del secondo piano dell’occupazione è pulito e ombreggiato, decorato con mobili e piantine. Ogni nucleo familiare ha una stanza, mentre cucine, lavatrici e bagni sono in comune. Una strutturata pensata per ospitare uffici è stata trasformata dalla fantasia e dall’impegno degli abitanti in una casa dignitosa e curata. Qui abitano Barbara e Stefano, una coppia di origini polacche che vive in Italia da quasi 20 anni. Lui faceva il muratore, lei lavorava in un ristorante. Quando hanno perso il lavoro non sono più riusciti a pagare l’affitto dell’abitazione in provincia di Napoli in cui risiedevano.

«Meglio che risponda mia moglie – dice Stefano sorridendo – è più brava a parlare italiano». «Siamo venuti a Roma pensando fosse più facile trovare lavoro – continua lei – Invece siamo diventati dei senza tetto, abbiamo dormito per tre anni in strada. Poi abbiamo conosciuto i movimenti, le occupazioni e abbiamo iniziato la lotta. Siamo a viale del Caravaggio dal 2015. Questo palazzo era vuoto, noi lo abbiamo sistemato e ce ne siamo presi cura. Lavoriamo quasi tutti, ma riusciamo appena a sopravvivere: nessuno guadagna abbastanza per pagare un affitto mensile da mille euro. Come si può buttare per strada gente che non ha una casa? Qui vivono anche tanti bambini, che ne sarà di loro? Chiediamo solo di lasciarci vivere qui, oppure di garantire anche a noi il diritto ad avere un tetto».

«Non siamo animali, siamo persone comuni, viviamo in occupazione a causa di un bisogno, di una necessità, non per prenderci qualcosa di qualcuno – dice Alicia – Siamo disposti a pagare un affitto popolare in una casa popolare perché qui abbiamo tutti stipendi minimi. Se fossimo ricchi non vivremmo in questo palazzo. Chiediamo una sistemazione degna e per tutti, famiglie e single. Abbiamo gli stessi diritti».

Stefano e Barbara, occupanti di viale del Caravaggio, foto di Costanza Fraia