Torre saracena Viaggio sentimentale nel Salento, di Antonio Prete (Manni, pp. 158, € 14,00), è un’opera di natura singolare e di struttura sorprendentemente dissimulatrice. Titolo e sottotitolo lasciano immaginare un testo autobiografico: l’autore, nato a Copertino, in provincia di Lecce, si inoltra nella terra natale e nel paesaggio dei ricordi depositati nella memoria. Oltre la cortina della scrittura di matrice biografica si intravede la struttura del reportage, un raffinato resoconto sul Salento, soprattutto il Salento di ieri. Valga per tutti l’esempio dell’Itinerario in un luogo di affezione: la meta è Copertino, con il convento delle Clarisse, la Chiesa delle Grazie, la Collegiata, il Castello. Luogo cruciale, destinazione del ritorno: a tratteggiare questi luoghi, nei quali la memoria soccorre con maggiore generosità, il linguaggio si produce in una serie di immagini lavorate con evidenti preziosità stilistiche, che innalzano – come non di rado avviene nel corso di questo libro – il gradiente poetico di una scrittura: «Alle spalle del Castello ha inizio la via del mare: le onde degli ulivi annunciano le altre onde che, quando il mare è mosso, affliggono la scogliera calcarea … traforata dai marosi e dai venti: il tempo è fatto pietra. Pietra ricamata». Luoghi la cui bellezza risulta incrinata, «immalinconita e spenta per via dell’abusivismo che con selvaggia intensità ha esercitato per qualche decennio su questo tratto di costa il suo miope rituale» fatto di bagni «dall’aria fittiziamente tropicale», con una musica assordante che funesta il bagnante inseguendolo anche quando si allontana a nuoto.
A tener conto del solo titolo, Torre saracena si troverebbe probabilmente collocato accanto a Pellegrino di Puglia, il fortunato libro che Cesare Brandi pubblicava nel 1960. E sarebbe un errore. Nessuna foto, tranne quella di copertina, è chiamata a illustrare un testo che si apre con una premessa che insiste sui tasti di una biografia identificata sin da subito come individuale quanto collettiva.
Torre saracena oltre all’intelaiatura autobiografica, alla scansione per tappe che lo avvicina al reportage, è un libro che racchiude un nocciolo segreto, nel cuore del quale occultata e bianchissima è stata riposta una mandorla dolceamara. Libro degno di una lettura lenta e meditata, e di riletture ancora più attente, le sue pagine svelano a poco a poco una struttura di senso che è di indirizzo poetico, filosofico e civile. La lontananza rivela la bellezza e la porge alla coscienza che nell’assumerne il carico se ne rende degna e ne diventa testimone. Nella Premessa gli incipit dei capoversi disegnano una mappa concettuale che sosterrà il lettore per tutto il corso del libro. Si tratta di una mappa disegnata dall’oscillazione lontano-vicino: ai luoghi fisici e mentali evocati è conferito il compito di costruire il fondamento di ogni esperienza possibile. «Nel Salento ci sono nato … L’alba rischiarò nebbiose geometrie di pioppi, cascinali rossastri che sembravano galleggiare su terre acquose … Dal Salento sono stato lontano. Nel Salento, spesso, ci sono ritornato … Mi sono chiesto spesso quali caratteri e quali segni potessero definire l’appartenenza a questa terra…». Queste primissime pagine vanno a delineare una scena in cui la memoria del passato sostiene e orienta all’interno di un presente storicamente ben connotato: allontanamento dalla terra natale dell’autore al termine degli studi liceali, urbanizzazione, emigrazione (ieri come oggi), valigie di cartone nelle mani di uomini che hanno negli occhi ancora l’immagine delle lampare e che viaggiano verso Milano, la Francia o la Germania attaccati ai loro dialetti come Dora Markus al suo amuleto d’avorio.
Depositate nel fondo della memoria individuale, le immagini restano in sospensione finché non insorge la consapevolezza della lontananza, un tema cui Prete ha dedicato un trattato nel 2008. Ed è nel momento della consapevolezza che accade il miracolo: il soggetto coglie la vibrazione della memoria e si mette all’opera per recuperarla alla vita presente, per varcare cioè lo spazio interposto tra quel tempo e questo tempo. È la difficoltà e insieme la scommessa del ‘ritorno’, grazie al quale si rende possibile l’azione creatrice del linguaggio. Un’operazione di marca tipicamente leopardiana. Riportata alla luce dalla volontà di strappare al tempo le sue prede, l’immagine torna in vita con un sovrappiù di senso, carica dei segni della lotta intrapresa e vinta grazie all’azione della parola, una parola che conferisce ai ricordi di un ragazzo, oggi scrittore, traduttore e critico letterario (Leopardi, Baudelaire fra gli altri), lo statuto di una altissima poeticità e una valenza che non ha più nulla di puramente individuale. Come non è individuale l’idillio scritto a celebrazione dell’infinito còlto guardando la siepe, udendo le fronde, nella finzione della scena familiare e d’un tratto dirompente. Mantenere la memoria e renderla attiva ed efficace nel presente è il senso ultimo di questo libro che può anche essere accolto come un appello di natura civile a fronte della smemoratezza collettiva che tanto drammaticamente marca i nostri tempi.
Essere lontano, rievocare nella memoria ciò che è stato, tornare ai luoghi benedetti dalla felicità della giovinezza diventa esperienza di come il linguaggio sappia operare il prodigio che consente al soggetto di affacciarsi oltre la finitudine e protendersi in uno spazio e in un tempo sottratti al peso della caducità. Non c’è ombra di ripiegamento o di nostalgia in questo libro che invece mostra con forza come il riconoscere la potenza dei luoghi (lo scrive nel saggio Finitudine e infinito. Su Leopardi, 1998) costituisca il fondamento solidissimo della «conoscenza poetica», che interviene quando il «tragico» resta catturato e sospeso «nella musica della lingua».