A qualcuno forse è sfuggito, ma nella fitta giungla di anniversari del 2022 ce n’è uno che ci ricorda l’assenza venticinquennale di Osvaldo Soriano, scomparso nel gennaio del 1997 a Buenos Aires per un tumore ai polmoni, affrontato con quella silenziosa riservatezza che, nell’epoca di una totale esposizione di sé, ci viene oggi negata.
Soriano aveva allora cinquantaquattro anni e lasciava in eredità al suo vastissimo pubblico di lettori sette romanzi, quattro raccolte di articoli e racconti, un libro per bambini e un’enorme produzione giornalistica apparsa per più di trent’anni su riviste e quotidiani, tra gli altri il manifesto e Página/12, gli unici ai quali fu assolutamente fedele (al primo aveva cominciato a collaborare durante l’esilio, e il secondo contribuì a fondarlo).

QUANDO IL SUO AMICO José María Pasquini pronunciò un’affettuosa orazione funebre nel cimitero di La Chacarita, nessuno si stupì nel sentirgli definire Soriano «un socialista senza partito, un uomo di sinistra (…) che pensò sempre all’ingiustizia come a un delitto di lesa umanità, convinto com’era che ogni uomo e ogni donna di questa terra dovrebbe avere l’opportunità di vivere con dignità». E l’eco delle profonde convinzioni di uno scrittore ribelle e autodidatta (come Roberto Arlt, non aveva concluso le scuole superiori) è percepibile in tutte le sue opere, popolate da personaggi emarginati e sconfitti ma decisi a lottare sino alla fine, spesso grotteschi ed eccessivi, e tuttavia mai ridicoli.
Accompagnato da uno straordinario successo di vendite sin dall’esordio, avvenuto nel 1973 con Triste, solitario y final (il primo editore a portarlo in Italia, nel ’74, fu Vallecchi), nel suo paese Soriano non ha mai goduto il favore della critica letteraria più influente, che lo ha escluso dal canone modellato nelle aule universitarie, quasi a rinnovare la polemica tra gli scrittori «popolari» del gruppo di calle Boedo e quelli europeizzanti e «colti» di calle Florida, divampata a Buenos Aires nella prima metà del ’900. In anni recenti Soriano è stato però oggetto di nuove e più approfondite letture (Rogelio Demarchi ne ha «censito» un discreto numero provenienti da studiosi di tutto il mondo, compresa l’Italia) che sottolineano il suo diritto a occupare un posto di prima fila nella letteratura argentina contemporanea e insistono sul marcato carattere postmoderno della sua opera, senza dimenticarne il tentativo, spesso riuscito, di scavare in un’identità nazionale straordinariamente complessa.
I lettori italiani, che a Soriano hanno sempre riservato un’attenzione speciale (nel corso dell’esilio trascorso tra Belgio e Francia, due dei suoi libri apparvero in traduzione presso Einaudi prima ancora che in lingua originale), hanno ora occasione di rileggere il suo ultimo romanzo, ovvero L’ora senz’ombra (1995), che da più di vent’anni manca dalle nostre librerie e finalmente vi ritorna, nella eccellente traduzione di Glauco Felici, grazie alle edizioni Sur (pp. 236, euro 16,50): un’ottima occasione per confrontarsi con la prosa asciutta, l’audacia picaresca e la folla di personaggi eccentrici e indimenticabili di un testo che sembra, in un certo senso, la summa di tutti quelli scritti da Soriano.

NARRATO IN PRIMA PERSONA dalla voce di un protagonista senza nome, scrittore di professione, L’ora senz’ombra (titolo tratto da un racconto di Borges) sembra rimandare ai generi favoriti di Soriano, ossia l’avventura, il poliziesco e il racconto di viaggio, e l’inizio è subito segnato da un’irresistibile spinta a muoversi: muoversi per riuscire a scrivere lontano dall’odiata capitale, per soddisfare le richieste di un detestabile editore che esige la consegna di una Guida alle passioni argentine, e soprattutto per ritrovare il padre, sognatore incallito e malato terminale che adesso è in fuga dall’ospedale dov’era ricoverato.
A bordo di una Ford Torino – veicolo d’altri tempi destinato a bruciare in un enorme incendio, nonché simbolo di una nazione una volta fiorente e del declino di tutte le sue illusioni – il viaggio si dipana dalla pampa al mare, deviando verso innumerevoli storie secondarie ed esplodendo in una girandola di episodi sospesi tra malinconia e franca comicità, mentre il protagonista lotta con l’acufene, un continuo ronzio simile a quello di un moscone imprigionato nel cranio, che nessun medico sembra in grado di curare.

OFFUSCANDO PENSIERI e ricordi, il ronzio ostacola costantemente quello che è il vero scopo del viaggio: ricostruire la storia dei genitori e la propria infanzia grazie a testimonianze di parenti e amici, vecchi oggetti, antiche registrazioni, foto della madre ex modella che l’ha abbandonato ed è morta troppo giovane, visite a luoghi leggendari come la città di cristallo progettata e costruita dal padre e distrutta a cannonate dopo la caduta e l’esilio di Perón.
La road novel, accostabile per certi versi a quella narrata in Un’ombra ben presto sarai (Einaudi, 1990), scivola così in un vero e proprio romanzo familiare che è allo stesso tempo una rivisitazione «dal basso» della storia argentina, tra accenni agli eroi dell’indipendenza, allusioni alle molte, misteriose e contraddittorie anime del peronismo, la minuziosa evocazione degli anni ’40 e ’ 50, le amarezze e le diffidenze di chi torna dall’esilio, e infine le sciagurate tracce dell’esasperato neoliberismo in cui Menem sprofondò il paese negli anni ’90, e che Soriano non si stancò mai di attaccare.
Il romanzo propone dunque di stabilire un collegamento tra storia individuale e collettiva, perché il protagonista procede parallelamente alla ridefinizione della propria identità e di quella nazionale, rifiutando ogni riscrittura «ufficiale», perché solo assumendosi la responsabilità del passato si può comprendere e analizzare il presente. Un doppio percorso nel tempo e nello spazio, una rischiosa navigazione tra miti personali e familiari, vicende storiche e immaginario sociale e culturale, allegorie e simboli, realtà e finzione.

A QUESTO DUPLICE VIAGGIO se ne affianca un terzo, quello intertestuale, che tra citazioni e omaggi affianca all’inesausta ricerca del padre (già visibile in I racconti degli anni felici Einaudi 2007) la presenza di padri letterari e altrettanto amati, da Conrad a Kafka a Borges a Bioy Casares a Cervantes a Chandler a Balzac, senza dimenticare la cultura di massa (in primo luogo il cinema), il cui utilizzo costante, amoroso e spregiudicato è pari, in Soriano, a quello che ne ha fatto Puig, anche se sotto un segno diverso.
A un’intertestualità così spiccata si accompagnano poi riflessioni sullo scrivere e il narrare – brandelli di una poetica ormai matura e definita, sparsi in tutto il testo – , il rapporto tra finzione e realtà, l’influenza delle «protesi» tecnologiche sulla memoria e la scrittura: considerazioni che affiorano di continuo, senza appesantirle, nelle pagine di un romanzo densissimo e «quasi surrealista» (così lo definiva l’autore, e non aveva torto) che ne contiene un altro, perché in quello che stiamo leggendo è racchiusa l’opera che il protagonista va scrivendo e che all’improvviso va perduta.
Una perdita in apparenza irreparabile che, mentre memorie e storie si confondono e il tentativo di ricostruirle si fa estenuante, all’improvviso trova rimedio grazie a un addio spettrale, alla consapevolezza di una morte, alla conferma di un legame: ed è solo allora, dopo aver ritrovato e perduto per sempre un padre improbabile e amatissimo, che il protagonista può riappropriarsi della scrittura, della sua storia, delle storie di tutti.